Che si tratti di un libro di design, oltre che di moda, lo dimostrano diverse cose. Prima di tutto il fatto che la moda è essa stessa una forma di design, una progettazione di oggetti speciali, particolarmente connessi al corpo umano, quali sono i vestiti.
In secondo luogo, la struttura di questo libro che somiglia un po’ ad un codice medievale in cui il corpo centrale e le glosse sui margini si mescolano tra di loro a formare un unico testo. La vita delle forme. Filosofia del reincanto (HarperCollins 2024), infatti, si presenta così e attraverso questo espediente grafico e narrativo restituisce il dialogo intercorso per mesi tra il filosofo Emanuele Coccia e lo stilista Alessandro Michele.
Infine, questo libro ragiona su uno dei concenti centrali nell’ambito del design, ossia il concetto di forma.
Si deve all’ architetto americano Louis Sullivan la famosa formula “form follows function” ossia, “la forma segue la funzione”. La scrisse in un saggio intitolato “The Tall Office Building Artistically Considered” pubblicato nel 1896 per sostenere che l’estetica di un edificio o di un oggetto doveva derivare esclusivamente dalla loro funzione pratica e non da inutili ornamenti. Questa sua ipotesi è stata poi fondamentale per lo sviluppo del modernismo nell’ architettura e nel design e più tardi per il movimento del Bauhaus. Al di là di Sullivan, comunque, tutta la riflessione del design e intorno al design si incentra sulla forma, sul suo ruolo, sulla sua estetica accattivante, anzi molto spesso la stessa idea comune di design è proprio quella di una produzione di forme attraenti e dall’estetica moderna, funzionali al mercato e al marketing.
Al contrario, il filosofo Emanuele Coccia non pensa mai al concetto di forma come parte di un binomio, in opposizione a qualcos’altro. Non c’è per lui la forma e/o la funzione, la materia e/o lo spirito, la natura e/o la cultura. Per Coccia, infatti, la forma non è una semplice apparenza, ma è la vita stessa, il processo dell’esistere, una trasformazione continua. “E là dove inizia una forma, la vita si apre”. Perché necessariamente tutto per esistere deve avere una sagoma e questa non può che cambiare incessantemente. Il mondo, perciò, si presenta ai suoi occhi (e in fondo anche a quelli del design) come un immenso laboratorio in cui la materia si modella di continuo sotto la forza creatrice incessante della vita.
La produzione di forme, inoltre, è una dinamica che accomuna tutte le realtà, umane e non umane: un vestito, una tazza, un’opera d’arte sono espressioni diverse della stessa volontà formativa poiché “se ogni forma vive, non c’è alcuna differenza tra gli artefatti umani, le piante e gli animali.” E se questo è vero, vale anche per le parole. E infatti Coccia scrive: “per uno strano pregiudizio, abbiamo immaginato che la filosofia, il pensiero nella sua forma più pura, sia sempre incarnata da parole. Eppure, le parole sono artefatti come lo sono gli abiti: sono fatte con le mani – mani che incidono linee su una pagina, mani che muovono senza sosta le dita su una tastiera in plastica e alluminio anodizzato”.
C’è più di una affinità dunque tra moda, design e parole ed è la continua volontà di rinegoziare le materia, il pensiero e la sua relazione con il corpo umano in quella che è appunto la vita.
Il quarto capitolo del libro è specificatamente intitolato “Design” ed è qui che si legge:
“Grazie alla rivoluzione industriale gli oggetti sono prodotti in serie – ovvero in modo che tutte e tutti, o quasi, abbiano l’opportunità di possederle. […] In una città che si compone soprattutto di cose e si costruisce attraverso la loro trama, disegnare le cose, anche le più piccole, significa trasformare la città. Il design è una delle fonti principali della realizzazione materiale della democrazia e lo strumento privilegiato per cambiare e migliorare l’esistenza”.
Dunque, non solo forme, ma condizioni di vita e pratiche civili. È questo, dunque, il compito che si riconosce al design in quanto fabbricante di forme. A tale riflessione di Coccia, nello stesso capitolo, Alessandro Michele risponde ricordando la sua esperienza presso Richard-Ginori, in cui ha occupato il posto – e la scrivania – che era stato di Giò Ponti progettando porcellane, il suo rifiuto per il modernismo, proprio quello che voleva forma e funzione reciprocamente giustificate, e infine il suo lavoro sulla Baguette di Fendi, una borsa iperdecorata, preziosa come “una tazzina di porcellana”, reinventata costantemente nei colori, nei decori, nella concettualità intrinseca. Anche questa una questione di forme e di design.
In un mondo di continua mercificazione, questo libro prima di tutto racconta l’amore per gli oggetti non in quanto feticci, ma in quanto storie, frammenti narrativi di vita. Ne racconta la capacità di condensare la vita e di farla viaggiare nel tempo e nello spazio. Ne racconta il potere consolatorio e quasi magico. Ne dichiara l’indispensabilità.
Perciò, se è l’idea di design come linguaggio del mondo che si vuole sostenere, le pagine di questo libro offrono l’argomentazione perfetta.
Se è l’idea di design come ricostruzione del mondo in una dinamica dialogica con l’uomo questo libro offre la citazione perfetta.
Se si vuole comprare un nuovo vestito per dare una “forma” diversa alla nostra vita, allora questo è il miglior libro da avere sul comodino per non sentirsi in colpa.
Loredana La Fortuna
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