Numero 18 | Marzo 1999

La vita di Emily Dickinson è tutta disegnata entro i confini della piccolezza: il modo migliore, ai suoi tempi e ancora oggi, per essere grandi davvero. Ci dice, la sua vita, che non importa tanto essere nati nel XIX secolo in una splendida cittadina del Massachusetts o nel XXI secolo in un anonimo e piatto villaggio dimenticato da tutti: importa, invece, avvicinarsi al mistero dell’esistenza e servirne il fascino, anche quando ci martellano le fitte del dolore e il sopruso estremo della morte. Abitiamo la notte, la notte è in noi. La vocazione di chi accetta la vita con coraggio è quella di riuscire, nonostante tutto, a vedere. «… Ed è così nelle oscurità più fonde – / in quelle notti lunghe della mente / quando non c’è luna che disveli un suo segno – / quando non c’è stella che – dentro – si accenda – // E i più coraggiosi – per un poco brancolano – e battono – a volte – dritti in fronte – contro il tronco di un albero – / ma poi imparano a vedere – …».

Un’esistenza estatica, quella di Emily, ma tutta composta di luminosa quotidianità. Non un’estasi lontana, dunque, ad uso e consumo di improbabili fughe metafisiche, ma un’estasi tessuta con i piccoli accadimenti di ogni giorno, metafisica già in atto qui ed ora, nello scorrere umile e dimesso del tempo di ciascuno: «I misteri della natura umana vanno oltre ‘i misteri della redenzione’, perché sull’infinito possiamo solo avanzare supposizioni, il finito invece lo vediamo».

Questa donna che, dopo la beffa del disinteresse pressoché totale nei confronti della sua opera sopportato senza piagnistei o livore in vita, brilla come una stella di prima grandezza nel cielo della poesia (e non solo americana) era una donna semplice, aliena dai pomposi fronzoli dell’apparenza: coltivava fiori che inviava in continuazione ad amici e conoscenti – spesso senza che ci fossero motivi o occasioni particolari – ed era un’ottima cuoca. Per tutta la vita ha accudito, assieme all’amata sorella Lavinia, la madre ammalata ed ha mostrato interesse e partecipazione nei confronti della sorte di tutti coloro che conosceva: anche di quelli che l’hanno criticata o considerata pazza o strana. Non è mai scesa a patti con il mondo, Emily: piuttosto lo ha abbracciato, con una partecipe e sofferta comprensione: «Questa è la mia lettera al mondo / che non ha mai scritto a me – … ».

Emily ha pensato il mondo, lo ha letto, gli ha scritto. Lo ha pensato immersa in una solitudine che non è mai stata rifiuto (degli altri, del suo tempo, della natura) ma protezione di un sentiero rigoroso che va percorso da soli, se è vero che «si sarebbe più soli senza la solitudine» e che lei stessa è riuscita a restare negli anni «sola, in grande splendore»: «Ognuno – il proprio ideale assoluto / deve raggiungere – da solo – / In solitudine, con il coraggio/ di una vita di silenzi – …» (p. 90). Lo ha letto, il mondo, in ogni forma: è stata lettrice accanita – e non solo del prediletto Shakespeare e dei classici della letteratura – ma anche attenta e discreta ascoltatrice. il mondo viene a noi in tanti modi e ci sorprende, dobbiamo ripagarlo con la nostra disponibilità e la nostra fatica perché, al di là del suo modo di presentarsi, tutto ciò che ci circonda è riconducibile all’amore («Che amore è tutto ciò che c’è, / è tutto quello che sappiamo dell’amore, / è abbastanza, il carico in teoria / proporzionale al solco… »). Gli ha scritto, al mondo. Frasi lucenti, da orafo, da artigiano che ha quotidiana confidenza con pietre preziose. Parole ricercate con cura e riverite in ossequio al loro assoluto potere: «… Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere… A volte ne scrivo una, e la guardo, ne fisso la forma, i contorni fino a quando comincia a splendere e non c’è zaffiro al mondo che ne possa eguagliare la luce». E lettere. Molte andate, purtroppo, perdute. Altre fortunatamente conservate, da lei o dai suoi molti corrispondenti. Lettere che contengono passi mirabili, ferite e gioie raccontate attraverso raggi di sole: «… Ti ho scritto un tal numero di Biglietti da quando ne ho ricevuto uno tuo, che mi sembra di scrivere al Cielo… », «La Notte è il mio Giorno favorito… ». Una lettera è tutto per lei, «… Una Lettera è una gioia terrena – / negata agli Dei – ».

Sulla vita di Emily si è abbattuta la meschineria di tanti personaggi incapaci di coglierne la grandezza (un nome per tutti: Thomas Higginson, all’epoca critico di vaglia) i quali, dopo la sua morte, si daranno un gran daffare per recuperare il tempo colpevolmente perduto e per dimostrare di averla conosciuta e di averne, anche, condiviso il tormento. Pure in questo caso Emily, poco prima di morire, trova le parole giuste. Parole che contengono certamente un giudizio, il quale però non pare senza appello e confina, anzi, con una benevola assoluzione: «La Stupidità è più tremenda del Dolore, perché è la stoppia su cui il dolore è cresciuto». Nonostante la meschineria, gli infingimenti, i tradimenti, le piccole e grandi ripicche presenti in ogni consesso umano inclusa Amherst (da cui Emily non si è quasi mai mossa) e non esclusa la sua famiglia (le cui intricatissime vicende esaltano le capacità di attenta e scrupolosa studiosa della Lanari, che riesce a riportare in vita rapporti e amicizie, passioni e abbandoni, perbenismo di stampo vittoriano e sempre più manifeste concessioni a un’etica più rilassata e tollerante), Emily – apparentemente in sordina – ha giocato fino in fondo le carte essenziali dell’esistenza, arrivando a coglierne un possibile senso senza curarsi di destare il sospetto del fallimento o della follia e senza temere la protezione del mistero. Perché non si è mai sposata, neanche con l’amatissimo Otis P. Lord pochi anni prima di morire? Quali rapporti ha effettivamente avuto con le molte persone e i tanti corrispondenti amati (talvolta ambiguamente, talaltra con commovente chiarezza), al di là di quanto è possibile capire dalle lettere e dalle poesie rimasteci? Chi è il destinatario (o chi sono i destinatari) delle tre inquietanti Master’s letters? Cosa dire di definitivo circa la sua presumibile omosessualità (p. 84) o bisessualità? Perché una donna estremamente intelligente e colta come lei ha deciso, intorno ai trent’anni, di ritirarsi a vita privata e di vestire sempre di bianco? Tutte domande di grande interesse, a cui però ancora oggi è difficile dare risposta, anche da parte degli studiosi più validi. Viene da pensare che il mistero sia per Emily un accesso privilegiato alla conoscenza del vero. O una porta, un velo, per salvaguardarne l’integrità, per impedirne la piena percezione da parte di chi non è disposto a compiere lo stesso massacrante cammino di iniziazione e illuminazione: perché solo «… i più coraggiosi… poi imparano a vedere…».

C’è anche dell’altro, in questo libro. Molto altro. La storia del contrastato rapporto fra Emily e Dio, ad esempio. «Il diavolo – se fosse fedele / sarebbe l’amico migliore – / perché, certo, ha ottime doti – ma non quelle di cambiare – / Perfidia è la sua virtù / ma se l’abbandonasse / il diavolo – non c’è dubbio / sarebbe del tutto divino » (p. 151). Oppure considerazioni di grande acume circa l’irregolarità e la distonia dei suoi componimenti fondati, come tanti passi delle lettere, su un pensiero luminosamente ellittico, capace di condensare in un punto masse enormi di materia significante o di disperderle ad anni luce di distanza, all’interno di un’anima dai confini imprecisati. O ancora il grande trasporto nei confronti dei bambini: una persona come Emily, che praticamente non esce mai di casa e che molto raramente ammette alla sua presenza anche gli amici più cari, non esiterà a recarsi a casa del fratello per vedere per l’ultima volta l’amato nipote Gilbert (che morirà di tifo il giorno dopo all’età di otto anni) né rifiuterà mai di ricevere, negli ultimi anni e sia pure uno per volta, proprio i bambini.

Di questo libro si è parlato poco e il lavoro scrupoloso e rigoroso fatto dalla Lanari non lo merita affatto. Per nulla accademico, il libro aiuta a capire ciò che si può capire. Aiuta a vedere, potremmo dire con le parole di Emily, o a prendere doverosamente in atto che qualcuno, investendo senza reticenze tutto ciò che possedeva, ha visto. Non leggerlo significa perdere un’occasione preziosa, perché la vita di Emily Dickinson, normale ed eccezionale nello stesso tempo, riguarda tutti noi. La normalità, la quotidianità, la povertà della nostra condizione sono il varco – dai più insospettato – verso l’eccellenza, che è accettazione e superamento, tensione continua e quiete imperturbabile. Il cammino è tracciato, il solco evidente. Ed è la stessa Emily a salutare tutti i suoi coraggiosi compagni di viaggio con le parole scritte a suo tempo all’amica Mary Hill, a cui è morto un figlio: «… L’Immortalità è una ricompensa lenta. Qualsiasi altra pace ha molte Radici e rispunterà di nuovo. Con letizia, da una che sa».

Giacomo Leronni

«Il diavolo – se fosse fedele / sarebbe l’amico migliore – / perché, certo, ha ottime doti – ma non quelle di cambiare – / Perfidia è la sua virtù, / ma se l’abbandonasse / il diavolo – non c’è dubbio / sarebbe del tutto divino.»

In libreria

Vita di Emily Dickinson di Barbara LanatiBarbara Lanati
Vita di Emily Dickinson. L’alfabeto dell’estasi
Feltrinelli, 2006
Collana: Universale Economica
191 p., ill., brossura
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