L’Italia della lotta armata, degli anni di piombo, delle esecuzioni politiche, del contrabbando, di quel legame indissolubile tra poteri occulti che manovrano le sorti condivise, la cui eco arriva intatta fino ai giorni nostri.

Il romanzo di Anna di Cagno, giornalista e scrittrice, trova la sua genesi nell’Italia più nera, entrando di fatto nella long list del Premio Strega 2025.

L’anno della Garuffa, edito da Arkadia nella sua collana Eclypse, ci restituisce in un solido intreccio narrativo il momento nel quale è stato rapito Aldo Moro, gli inquietanti interrogativi di connivenza tra criminalità e potere, e uno Stato democratico nel quale il conflitto si manifestava (diversamente da ciò che avviene ora) in tutta la sua drammatica natura.

La storia del rapimento del presidente della Democrazia Cristiana avviene nelle stesse ore in cui Luca Barnaba, figlio di un chiacchierato e facoltoso imprenditore, viene sottratto alla sua famiglia. La vicenda avviene in una non specificata città di provincia del sud Italia, che potrebbe essere ovunque compresa tra quei meridiani segnati da criminalità organizzata, violenza, rapimenti illustri e famiglie smarginate ma accomunate dalla sete di potere.

Due giovani e caparbie donne, Maria Grazia e Monica, aspirante giornalista la prima, liceale la seconda, si incontrano e cercano di fare luce sul rapimento.

Monica è figlia di amici di famiglia dei Barnaba ed è per questo che Maria Grazia si avvicina a lei, nel tentativo di capire a mezzo di domande scomode perché sia stato sequestrato Luca.

È per questo che è meglio lasciare stare le cose come stanno, e non mettere il naso dove non serve. Se cominci a fare la giornalista d’assalto che combatte armata di penna lo smercio illegale di sigarette, li costringi a organizzarsi, a chiedere aiuto a chi è più forte. E poi ti becchi una pallottola in testa. Ne vale la pena? Ci guadagniamo tutti a lasciare le cose come stanno: lo Stato, i contrabbandieri che mantengono le loro famiglie e noi cittadini onesti che troviamo le sigarette sotto casa anche alla domenica.”

È un Paese che puzza di fumo, di imbroglio, di una classe media che aspira alla modernità salvo poi affidarsi a personaggi improbabili che agiscono con modalità tribali. Come quando la famiglia Barnaba consulta una veggente dal corpo deforme e dalla vista negata, nella speranza di trovare una strada percorribile che la riconduca al piccolo Luca, nascosto chissà dove. La madre del bambino, Ester, viene scacciata come si farebbe con una mosca, la sua ascesa sociale ignorata e mortificata da una stregona qualunque.

“Ha ripreso il tono di prima, brusco e secco. Ester, nonostante il gelo improvviso che avverte in quella cucina sudicia, deglutisce e prova a rispondere.

  • Io sono viva e sono qui per avere il suo aiuto.
  • Tu sei morta. I morti non li aiuto. Pure tuo marito è morto, e pure tua figlia. Siete tutti morti. Vattene e non tornare più.

L’intreccio narrativo viene puntellato da istantanee che tratteggiano i luoghi della città come in foto sbiadite di polaroid arrivate fino a noi come recuperate da un vecchio cassetto.

L’acume di Monica è l’elemento che porta avanti la storia, la sua voce che cerca di essere adulta in mondo di adulti che agiscono come adolescenti osserva e intuisce, sperimenta e cementifica, cercando di mettere a nudo l’animo di una generazione che ha conosciuto il boom economico, fatto i conti con il primo benessere collettivo, scoperto la fragilità delle relazioni.

“In ogni caso ho capito che ci sono due correnti di pensiero: chi pensa che si debbano accontentare le richieste dei brigatisti – ma non sono certa che mia madre ne faccia parte – e chi, come mio padre, è contrario. Il mio problema è che non ho capito cosa chiedono i sequestratori di Moro. Ho provato a domandare se anche per lui, come per Luca, è stato chiesto un riscatto, ma non mi hanno risposto. Stavano litigando sul papa. Poi siamo arrivati alla frutta e Tano ha portato via il cestino del pane. Con la scusa di aiutarlo, me ne sono andata in cucina, anche perché solo lì posso mettere un po’ di zucchero sulle fette d’arancia. Il divieto di zucchero sulla frutta è l’unica cosa sulla quale i miei sono d’accordo.”

Di Cagno tratteggia con lucidità un momento della storia personale (Monica) e collettiva (l’Italia), con la perdita del disincanto e di valori, muovendosi tra le pagine con uno stile giornalistico e riuscendo efficacemente a disegnare le atmosfere sociali di quegli anni lì.

La Garuffa, nel biliardo all’italiana rappresenta senz’altro il suo tiro a effetto più difficile perché cambia la traiettoria prevedibile di una biglia invertendo lo scenario sul tavolo da gioco.

È quindi la metafora di due eventi – il rapimento del bambino e l’esecuzione di Moro – che cambiano le sorti di tante storie familiari e individuali e la macro storia del nostro Paese segnando la perdita dell’innocenza e lo scontro con una realtà fatta di tradimento, omertà e legami occulti che agiranno quasi indisturbati nei decenni a venire.

Angela Vecchione