Il neurobiologo Andrea Levi, nel suo libro Genetica dei ricordi, spiega come sia possibile che la memoria umana possa durare anni. La memoria è l’unica componente fisica del nostro corpo, oltre alle ossa, che dura a lungo; tutte le molecole che ci costituiscono invece vivono poche ore o al massimo qualche mese. Il fatto è che il cervello, con un meccanismo di continuo interscambio tra i vari arcipelaghi della memoria, riscrive continuamente le percezioni e le sensazioni provate, combinandole con immagini ed emozioni, presenti e passate, in modo da consolidarle, reinventandole. Insomma, ogni ricordo è una creazione continua della nostra mente, figlio della dimenticanza, della selezione e deformazione dei fatti vissuti. Ciò viene confermato da Elizabeth Loftus, massima esperta della memoria e dei falsi ricordi in un’intervista di Eugenio Giannetta su Avvenire del 27 settembre 2024, quando spiega che i ricordi sono quasi sempre falsi, perché la memoria è manipolabile sia dalla nostra mente che da fattori esterni. Insomma, i ricordi immaginari di nonno Simpson non sono meno credibili di quelli veri, perché ricchi di dettagli, emozionanti e raccontati con sicurezza.  Chi inventa storie e poi si prende la responsabilità di scriverle è come Nonno Simpson, non fa altro che creare memoria, attingendo alla propria, dove reperisce immagini già ritrattate e amalgamate dalla sua immaginazione, per riconfezionarle in nuove scene che entreranno a far parte della memoria e dei ricordi di chi legge.

Antonia Byatt, nel racconto Zucchero, affronta la questione della creazione delle storie che vengono fecondate dall’ingannevole mito e nutrite dalla bugiarda memoria dei narratori. Esemplare figura di mentitrice seriale e straordinaria produttrice di miti familiari è la madre della protagonista, «Mentiva nelle piccole cose, per spazzare via gli equivoci, e in cose più importanti, per evitare verità spiacevoli. Mentiva floridamente e bellamente, nei suoi rari momenti di distensione, per rendere più bella una storia. Era una raccontatrice di grande respiro, e che toglieva il respiro, non spesso, e talvolta con troppa insistenza, ma al suo meglio era capace di ridurre il pubblico alle lacrime per le incontenibili risate.» A seconda dell’argomento o dell’episodio rievocato, la madre sapeva far piangere o fremere di rabbia nei suoi racconti ricorrenti, riguardanti il nonno, la sua fabbrica di fondant, le liti, le malattie o le zie matte e le nonne scorbutiche. Chi non ha avuto nella propria vita o nella propria famiglia un narratore o una narratrice, capace di incantarci da bambini e tediarci con lamentosi tormentoni in età adulta? La voce narrante del racconto è però quella della protagonista, una donna che racconta, forse la stessa Byatt – sembra infatti che questo sia l’unico racconto più vicino a vicende e personaggi della vita reale dell’autrice-, che corre al capezzale del padre, ricoverato in un ospedale di Amsterdam, dove si era sentito male. Curare e tenere compagnia al padre in ospedale diventa un’occasione per la protagonista di ascoltare, ricostruire e ricordare la storia della famiglia e quindi della sua identità. Il padre, un uomo razionale e chiuso, mai loquace, dal letto, che sarà quello di morte, vuole chiacchierare ora con la figlia ad ogni sua visita, cerca di «costruire una storia, un mito, una soddisfacente narrazione della sua vita.» Forse per lasciare alla figlia un ricordo migliore di sé, perché aveva notato «che era più difficile morire, per quelli che pensavano di non aver fatto nulla di significativo.»  In uno dei lunghi incontri tra padre e figlia, la conversazione va a toccare la morte del nonno, sempre raccontata dalla madre della protagonista in modo drammatico e come testimone diretta. Il padre rettifica il racconto, volendolo riportare alla veridicità e rivela che la moglie non era stata neppure presente alla morte del nonno. «Me ne ricorderei, -disse. -Era mio padre. Io c’ero senz’altro. Come posso sbagliarmi?» Solo allora la protagonista si rende conto che gran parte del suo passato poteva essere stato confezionato dalla madre. Riflette sul fatto che tante leggende diventano ricordi. Mentre il padre la rassicura, dicendole che somiglia a lui, che non ha preso da sua madre, la donna che racconta, Antonia Byatt, scrive: «Adesso, quando sono stanca, sento il viso di mia madre posarsi sopra il mio, come una maschera. Ho preso molto da lei. Ho fatto dell’invenzione il mio mestiere. Seleziono e confeziono.» Il gesto di selezionare e confezionare la riporta con la memoria all’unica visita fatta da bambina alla fabbrica del nonno, dove aveva assistito al processo di produzione dei fondant. Lo zucchero bollente di vari colori veniva lavorato in lunghi fili, poi intrecciati, amalgamati e infine tagliati in deliziosi tocchetti. Quel suo ricordo era diventato da adolescente il suo primo racconto scritto.

Secondo la donna che racconta Antonia Byatt la produzione della memoria e la produzione della letteratura sono strettamente connesse nel procedimento, nel risultato e nella funzione.

A chi si interroga sul senso di scrivere ancora romanzi forse avrebbe risposto che non scrivere più romanzi sarebbe come eliminare il processo di produzione dei ricordi e l’esistenza stessa della memoria come funzione cerebrale. Scrivere racconti, fiabe, romanzi significa contribuire all’eterno vivere della memoria collettiva, all’eterna e naturale produzione di miti.  Leggerli significa alimentare la memoria, nutrire la mente di immagini, parole, emozioni che ne generano altre e ci rendono capaci, consapevoli di esistere in modo altro, intangibile, non solo fisico. La memoria è la nostra vita intangibile, non si vede, ma esiste.  Se anche dovessimo perderla, la nostra mente è in grado di produrre ricordi immaginari, che ci confortano e rassicurano. L’arte di favoleggiare e scrivere romanzi finirà, quando finirà l’umanità.

Qual è la verità, quindi? Si domanda Antonia Byatt, protagonista di Zucchero. Io rispetto davvero la verità, dice, e riprende a raccontare della visita alla fabbrica del nonno, descrivendo ogni cosa con cura e precisione di particolari. Lo zucchero caldo e trasparente delle caramelle le richiama però alla memoria certi uccellini fatti in Germania delicati e fragilissimi di vetro filato e quel vetro filato le ricorda il ghiaccio delle terre del Nord. Questa la verità dell’arte del narrare, zucchero ghiaccio e vetro filato.  Una verità visibile solo in trasparenza, obliqua e composita, rubata alla vita con l’inganno. Simbolo perfetto della verità fraudolenta del raccontare e dell’arte in generale è la signora Brown, la donna che fa le pulizie a casa di Debbie, moglie di un famoso artista in crisi creativa, nel racconto Lavoro d’arte, in Le storie di Matisse, altra raccolta di racconti della Byatt. La signora Brown, mentre spolvera, passa l’aspirapolvere e rassetta in casa di Debbie, chiacchiera di arte e di colori con il padrone di casa, noto pittore. Un mattino a casa di Debbie arriva un invito alla mostra di una nuova geniale artista che crea opere d’arte con avanzi di mobili, giocattoli rotti, maglioni, oggetti raccattati in giro. Il giorno dopo la signora Brown, arriva accompagnata da una sostituta, perché per un po’ di tempo non potrà venire, non si era resa conto dei cambiamenti, dice, che avrebbe provocato nella sua vita, far vedere le sue cose…

Maria Antonietta Nigro