Grace Paley ha dato soprattutto un nome a quel legame che ci unisce alle altre donne, a quello che sono state prima di noi e a quello che saranno. Connections, le connessioni a cui le donne lavorano contro le disconnections, quelle a cui hanno lavorato gli uomini a parcellizzare, isolare, esaurire risorse. Paley ha dato un nome a quel pezzo comune di pelle, di acqua, di aria, di bisogno, senza il quale la nostra esistenza, quella di ognuna di noi, non avrebbe senso, quello senza il quale non c’è comprensione. A questo legame, Paley ha dato un nome: un fuoco, che si dissangua nel cielo, ruzzola giù per i campi, rotolando alle ruote della bici di un ragazzaccio; una ruota che dalla casa di sua madre irrompe a casa sua, la sera. Quel fuoco l’ha “inventato” la donna e sempre lei gli ha dato un nome, “l’ha chiamato” fuoco. Non è il fuoco addomesticato di un caminetto, un tepore materno che ci riscalda, ma una palla infuocata che travolge tutto. Questa ruota infuocata è anche la scrittura femminile che non ha niente a che vedere con un troppo corretto e spesso usato “declinata al femminile”, una metafora di quelle che Paley proprio non sopportava. Il fuoco in fondo è quella rivoluzionaria passione per l’altro.

“Che lei fosse piantata era noto”, scrive Paley. Piantata nel suo appartamento newyorkese del West Village, e prima ancora in quel block del Bronx in cui viveva con i genitori, ebrei russi, pezzo di quella New York multietnica in cui si sbarcava a Manhattan; piantata su quel pavimento di linoleum dove ha cresciuto i figli, dove i giorni si allungano e l’inverno non finisce più e poi si accorciano, e l’estate ci scappa già dalle mani, e la vita è solo una somma di probabilità continuamente disattese, tutto quello che accade all’ultimo minuto, senza prima e senza dopo, tra la cucina e il resto del mondo in cui Paley, attivista in senso profondo,  è assolutamente radicata. “Mulberry Street termina in opere buone Il Comitato per l’Azione Non violenta inizia lì”; E poi “la casa del Bambino che ospita bambini abbandonati” nella strada che non diventerà la superstrada di Broome Street dove si affaccia la vita di dentro, del piccolo appartamento con il suo piccolo e coraggioso progetto di ESSERE BUONI E FELICI PER SEMPRE. Perché dentro e fuori sono sulla stessa traiettoria. Come una lingua che cerca di farsi strada dentro di un’altra (per lei, figlia di stranieri, l’inglese americano che si annida nel russo e nell’Yiddish). “Sometimes there’s hospitality, sometimes a querrel”. Ad assorbire tutto quel prendere e restituire così rumoroso, dolce e violento, tutto quello che dà segnali di disgregazione, eppure tiene, quelle immagini mobili che la memoria tralascia ma che restano lì sotto la pietra. Senza dismettere mai quella responsabilità nei confronti della società, (“a working relationship with society”), anticipando connessioni, l’intersezionalità cha lega la retorica antiabortista, alla misoginia, al controllo istituzionale sul copro della donna, la guerra, l’imperialismo, il disastro ecologico. Tutto nel riverbero delle nostre vite però, in un progetto di scrittura politica che va sicuramente oltre quel sentirci riconfortate e accompagnate da lei mentre ci scrive di bambini, poi di anziani, di pannolini, di cucine, di amiche che muoiono, di zie, di sangue e di soldi, di unioni e disunioni, di uova sode.

Perché tutto questo mondo di dentro, della memoria, Paley lo racconta per rendere più forte la donna di fuori, quella politica, la piccola donna piantata sulla Fifth Avenue per protestare contro le parate militari durante la guerra del Vietnam, che non paga le tasse per non pagare la guerra, che assieme al Women’s Pentagon Action scavalca le cancellate del Seneca Peace Encampent, che assieme alle Women in Block protesta contro l’occupazione israeliana della striscia di Gaza, che fa disobbedienza civile contro l’occupazione militare nel Salvador e in Nicaragua, che non ha mai smesso di praticare il femminismo e lottare per la pace.

Ci sono i parchetti dove le madri portano i figli in quelle lunghe giornate che sembrano non avere altro scopo, oltre a quel su e giù dell’altalena. Ma lei lo scopo è capace di intravederlo, di dargli un senso. Ci sentiamo in diritto di appropriarci di quelle ore desolate, senza uno straccio di adulto con cui parlare di qualcosa. “Il cervello di Grace si sostituisce al nostro”, teniamo in mano un bambino, facciamo una torta, siamo innamorate, siamo divorziate”, scrive Annalena Benini. Eppure, quel mondo che Paley osserva e indaga non ci appartiene del tutto: sono gli anni Cinquanta, dopoguerra, poi arriveranno gli anni Sessanta con tutta quell’energia, e spinta verso un cambiamento possibile. Negli stessi anni Adrienne Rich scrive Of Woman Born. La maternità è un’istituzione da smantellare. E lo spazio urbano, dei parchetti e delle altalene, non è ancora l’estensione dei nostri salotti ordinati, ma è uno spazio da conquistare, da vivere fuori dell’istituzione della maternità, fuori del sogno ordinato della società capitalista e patriarcale. Uno spazio multietnico, di non assimilazione. In cui riscrivere la relazione madre-figlio, quello in cui i bambini crescono mentre spingi l’altalena, e loro sono felici, mangiano di tutto, dormono senza piangere, continuano a crescere. Quel paradiso nascosto in cui tutto avviene naturalmente e in fretta. E quei bambini, ragazze e ragazzi, bisogna tenerli per mano per non farli diventare uomini avidi e poter davvero ricominciare daccapo.

Accanto alla vita, con la politica, le amicizie, l’amore, i rischi, tutta quell’energia, e la speranza, accade la scrittura in cui non bisogna sprecarsi perché “Art is too long, and life is too short”. Scrisse racconti, quarantatré short stories che sono anche poesie e poesie che sono anche prosa. Pubblicò poco. Tre raccolte: The Little Disturbances of Man (1959), Enormous Changes at the Last Minute (1974) and Later the Same Day (1985). Le poesie e qualche saggio.

Per lei non si è riservata il ruolo pomposo di narratrice della storia delle storie, ma stravolgendo ogni prospettiva, quello di ascoltatrice: questo è il suo mestiere (A Poem about Storytelling). “When I’m interested in you, I’m interesting”. Primo di una lunga serie di slittamenti di prospettiva assolutamente originali, a smantellare tutti i diktat classici sulla scrittura (raccolti in Just as I Thought). Che uno scrittore non può essere un critico, che  si scrive non perché si è capito qualcosa ma proprio per il contrario, la scrittura nasce dall’ignoranza, non dal sapere (the reason he writes is to explain it all to himself, and the less he understands to begin with, the more he probably writes), che la bellezza sta nei suoni di quella lingua involontaria che ci portiamo addosso, il linguaggio di casa, la grammatica sulla punta della lingua (If you say what’s on your mind in the language that comes to you from your parents and your street and friends, you’ll probably say something beautiful).

Le sue storie non hanno solo “il caminetto acceso” dentro, che non si intiepidisce mai, come scrive Benini, ma custodiscono una materia ancora più rovente: la possibilità, la speranza che non è quella cosa sdolcinata, ma uno spazio aperto, “the open destiny of life that reflected her belief in the fight for a better future”.

I suoi testi nascono, come racconta in una intervista alla Paris Review, da una frase captata da una conversazione, mentre sta accadendo, senza artifici. E registrare quel momento ricco di senso. Come una fotografia. Per Susan Sontag, sua contemporanea, la fotografia è un atto di partecipazione: “To take a photograph is to participate in another person’s mortality, vulnerability, mutability. Precisely by slicing out this moment and freezing it, all photographs testify to time’s relentless melt”.

In questa traiettoria (lifetime) che unisce il personale al politico (the personal is political), che si stira da quello che sappiamo delle nostre vite (così poco interessante e proficuo) a tutto quello che non sappiamo (che è ciò che importa davvero), che sta nascosto come sotto una pietra, si dispiega la scrittura. Per Paley questo è la scrittura: immaginare il reale, immaginare la vita degli altri, anche quella delle donne, madri, sorelle, zie, apparentemente così poco eccitante e noiosa, e cominciare a scrivere su di loro, per capirle, e temere all’inizio di scrivere cose noiose e triviali, ma continuare a farlo, e sentire che era giusto così.

Silvia Acierno