I fantasmi – qualunque sia il senso che vogliamo dare a questo termine, che sia un passato che ritorna a farsi presente o una parte di noi che, dimenticata, tallona per interrogarci – ci appaiono quando sono loro a deciderlo e non si piegano a quello che pretendiamo da loro. Dobbiamo saperli vedere e ascoltare e anche rispondere alle loro domande con coraggio e appartenenza.
Guidata da questa convinzione Elena Rausa scrive il suo nuovo romanzo, Le invisibili, uscito per Neri Pozza. Un testo che è animato da una scrittura meditata e volutamente impervia per dare voce ad un passato e ad un presente entrambi ingombranti e facilmente confondibili, psicologicamente arrotata nel rivelare la nostra abitudine a sopravvivere piegati e induriti come piante costrette da un muro e da un sasso a crescere annodate a sé stesse, spiccatamente pungolante nel richiedere al lettore, per la densità di ciò che esprime, una grande attenzione.
L’impulso narrativo parte da un’esperienza tutta italiana e per niente gloriosa: il rigurgito coloniale in Africa negli anni del fascismo che vide la partecipazione massiccia di volontari come militari ma soprattutto lavoratori. Questa ‘impresa’ e i suoi strascichi attraversa tre generazioni che in queste pagine imparano prima a tacere, poi a ricordare e infine a tramandare visioni e versioni, spesso divergenti, in un costante gioco di rifrazioni, di appannamenti e di invisibilità. E di comunanza.
Il padre Vittorio, partito dal Salento e arrivato ad Asmara, racconta la sua esperienza africana, al soldo di un’Italia spregiudicata che sbarca come Giasone alla conquista del vello d’oro, al figlio Arturo. Il quale a sua volta, con il passare degli anni, rimasto solo a Milano e afflitto da una cecità corticale, racconta negli anni Duemila al giovane e inquieto Tobia i diversi volti del colonialismo e la sua esperienza di figlio di italiani che rimasero in Africa pensando ad un nuovo futuro.
Le narrazioni, tra chi non sa più leggere ma chiede di essere letto, tra chi vorrebbe leggere ma non trova gli occhiali da vista per farlo, passano tra le mani di Rausa che, grazie anche ad un accurato approfondimento storico, vengono offerte al lettore che ha voglia di ascoltare e di capire un passato che ci appartiene più di quanto pensiamo. L’invito è quello di superare le sacche del ‘‘eh, ma è successo tanto tempo fa’ e di rivivere quello ieri, con un costante richiamo al nostro presente, ai valori che permeano le famiglie di oggi di cui i figli sono la cartina da tornasole. Solo così comprenderemo quanto sappiamo del nostro passato e qual è la garanzia per il futuro.
In un continuo alternarsi di piani temporali e di una coralità di personaggi c’è un ragazzo italiano che porta la sabbia per il genio militare per costruire in Africa le strade. Un giorno, che peraltro in Etiopia ancora oggi si ricorda, in riva ad un fiume spegne, con un colpo di pietra alla testa, la vita di un suo connazionale che pochi istanti prima ha abusato di una giovane donna etiope. Il suo è un gesto di impulso, di vendetta e di riparazione, di una violenza che comunque non appartiene alla sua natura, ma che è l’esito obbligato di quanto l’uomo possa votarsi al male quando il tempo in cui vive è quello delle tenebre che trasfigura in peggiori anche le persone perbene.
Il suo gesto, che ricorderà per tutta la vita, anche se per ragioni diverse, si inserisce in quella furia collettiva, che non risparmia innocenti, quando gli italiani, specie i civili, si vendicano sulla popolazione locale dopo il fallito attentato degli etiopi al viceré Graziani. Mentre le case bruciano, le uccisioni di massa si susseguono e le donne cercano una via di fuga in una natura che sembra voltare loro le spalle, in Italia si continua a vivere come se niente fosse, incensando l’impresa coloniale in foto e in cinegiornali, con l’orrore alla porta accanto. Scene e atteggiamenti che ci portano alla mente il film La zona di interesse presentato al Festival di Cannes del 2023.
Poi c’è un anziano che, benché cieco, continua a vedere ma non sa più cosa vede realmente e i cui unici appigli alla realtà sono una donna pragmatica di origini eritree che lo va a visitare dopo l’incidente d’auto accaduto per non investire per strada, dice, una pantera e gli prepara qualcosa da mangiare e un sedicenne di una generazione chiusa nel proprio mondo di dimenticanze e di devianze che deve frequentare quella casa per rimodellarsi in un lavoro socialmente utile.
Quell’anziano, che è poi Arturo, figlio di Vittorio, continua a vedere il suo primo amore, Lilit, la ascolta e le parla, una ragazzina conosciuta durante le sue escursioni in Etiopia mentre costei è al centro di un brutale rito tribale, con danze sincopate, con il quale il villaggio cerca di estirpare il demone che si è impadronito di lei. Un altro essere umano che questa volta è la sua stessa terra a ghermire e di fronte alla quale Arturo non può rimanere indifferente. Non sembra causale da parte di Rausa la scelta di questo nome perché, secondo la tradizione ebraica, Lilit sarebbe stata creata insieme ad Adamo e divenne la sua prima moglie. Non gradendo tuttavia la sua posizione di subordinazione all’uomo, decise di lasciare il Paradiso Terrestre e di aleggiare come femminile negativo nel sonno delle puerpere. Poi arrivò Eva, la seconda moglie, nata dalla costola di Adamo.
Lilit, nelle apparizioni ad Arturo, nella sua lontananza e, al tempo stesso, vicinanza, sembra configurarsi come l’epitome di un intero paese che è stato preso nella morsa delle convulsioni del colonialismo, ne è uscito trasfigurato, è stato poi abbandonato a metà degli anni Settanta nel clima di rinascita dell’Etiopia ma che ritorna ad ondate nelle mente di chi ne ha violato il suolo. Non solo: nella strage di Lampedusa del 2013 i naufraghi, che sono quasi tutti eritrei e etiopi, sono i figli di quella terra da noi invasa che viene a chiedere un risarcimento e, al contempo, un aiuto.
Mentre Lilit compare e scompare, tra Arturo e Tobia si instaura una conversazione essenziale anche perché non è facile trovare approfondimento quando il primo è preso dalle sue visioni e il secondo già da tempo si è chiuso al mondo e, la prima volta che l’ha fatto, è finito in questura. Con il passare del tempo però Tobia diventa gli occhi che mancano al primo e la novità in una routine stanca che dà ritmo e profondità al tempo di Arturo. Da notare come le frasi del giovane inizino sempre con un ‘non’ come se le parole non volessero uscire da quel cella interiore se non sotto forma di negazione, come se non gli appartenessero perché c’è una sfiducia nel lessico del mondo? A conferma del fatto che questo è un testo che parla anche del presente non possiamo non rintracciare in questi ‘non’ un atteggiamento tipico di moltissimi giovani e che Rausa, che è anche un’insegnante, probabilmente reperisce di prima mano. Intanto – e le varie storie di questo libro continuano a intrecciarsi a doppio filo con l’Africa – la madre di Tobia è una storica che fa ricerche sull’epoca coloniale italiana. Quello che Agata cerca sui libri suo figlio lo ascolta da Arturo.
Questo è un romanzo delle vite parallele ma anche delle improvvise convergenze che ha nel 3 ottobre una data decisiva. Sono pagine dove «il primo silenzio è paura, il secondo è scelta, dal terzo in poi sono tutti anelli di una lunga catena di omissioni». Si leggono storie che chiedono solo che la loro sorte non resti faccenda altrui, che si riconosca che da qualche parte una ferita c’è stata, che qualcuno ha subìto lasciando un segno nell’anima del mondo. E ci sono donne che non chiedono altro di smettere di essere invisibili perché esistono ma purtroppo fuori dal nostro angolo di visuale oppure sono state imprigionate in uno sguardo categorizzante. Torna il presente.
Perché smettere di raccontare fa male, non dovremmo mai interrompere la memoria. E ancora: ci sembra di cogliere nelle pagine de Le invisibili un rimando alla ‘sindrome degli antenati’ teorizzata dalla psicoanalista Anne Ancelin Schützenberger: esiste infatti una sorta di albero genealogico familiare che, oltre a registrare i legami di parentela, rende anche conto di eventuali traumi fisici e psicologici degli antenati che possono ripercuotersi sulle generazioni successive. Ogni famiglia si basa sui non detti che si perdono in un passato dimenticato che pure continua a condizionare quelli che vivono qui e ora. Rausa ce lo dimostra nei figli che conoscono spesso i genitori anche dalle loro ferite. Pensiamo ad Arturo con Vittorio, a Tobia con i suoi genitori in costante contrasto e a tanti altri personaggi, come peraltro anche l’Italia di oggi figlia e erede di quella di ieri, per i quali quello che viene taciuto dalla prima generazione la seconda lo porta nel corpo.
Perché, in fondo, «vere o non vere, le storie che nessuno racconta restano lì, a impoverire o avvelenare le falde, e non c’è da stupirsi quando la pianta soffre o muore».
Claudio Musso
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