Le isole di Norman è uno dei libri più importanti che ho letto nel 2020. E non perché è un premio Campiello Opera Prima, né un finalista del Calvino, nemmeno perché Veronica Galletta dalla Sicilia Orientale si è trasferita nella mia città natale, Livorno, e ha saputo amarla e farla sua con una modalità fondata sulla comprensione dell’indole come delle geometrie della livornesità.
Ortigia, il luogo delle isole di Norman, ha qualche corrispondenza con questo occidente non altrettanto pieno di ricchezze e bellezze, ma baciato da una luce arcaica, diversa e simile a quella che Elena, la protagonista della libro, descrive, cerca o sfugge. Ortigia immersiva, un luogo appagante e multistrato, che si rivela ma con parsimonia a chi gira per le strade abbacinato dal fulgore architettonico e naturalistico.
La storia di un incidente che segna una mappa sul corpo, la storia di fughe improvvise, di memorie sfuocate, è narrata per percorsi e riferimenti ossessivi, per tracce, sospetti, amicizie vecchie o appena sbocciate, piccole o grandi menzogne che l’uomo o talvolta la vita usa come trucco.
Il racconto è enigmistico, Ortigia una matrioska che si sfila via vestigia su vestigia. Ortigia di pietra e acqua, di bastioni e affacci, difesa e inerme di fronte al mare. Si fanno inseguimenti, si trova ma è un percorso che finisce, in un fondaco o in un fondo di caffè. È cruciale il fatto che niente faccia pensare al consueto, neppure il gesto più quotidiano: friggere le melanzane, cambiare medicazioni, ripetere un tragitto, accogliere una telefonata, attendere in un ospedale.
La lingua di Veronica è un edificio a più piani, a diverse altezze, con strutture variabili. È calda e distante, vicina e fredda. In mezzo agli estremi modula come farebbe un vento in estate, senza mai esagerare. Le isole di Norman è un’opera d’arte, un contemporaneo vintage, una Mappa di Boetti o forse, quei suoi arazzi su tela con le letterone colorate. Da comporre.
È un libro che lascia una duratura fascinazione.
Anna Bertini
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