Le librerie indipendenti stanno soffrendo, molte stanno scomparendo, altre rinascono con formule nuove e programmi inediti per soddisfare bisogni sempre più esigenti, diventando così luoghi polifunzionali dove si organizzano eventi, dibattiti, si offrono servizi editoriali, si creano bistrot, si trovano spazi per feste e laboratori per bambini. Si ci re-inventa per sopravvivere insomma.
Ma basterà però tutto questo? La fisionomia di molte di loro è mutata radicalmente, tanto da diventare punti di condivisione difficili da etichettare, dove la mera vendita di un prodotto, il libro, quasi passa in secondo piano. D’altronde qui da noi lo è irrimediabilmente da anni.
Siamo un Paese che sforna tanti (spesso troppi) nuovi titoli, e pochi (sempre troppo pochi) lettori. Un mare di offerta che si perde in un lago stagnante di domanda. Se ormai chiudono i propri battenti anche negozi storici delle grandi catene nei luoghi centralissimi delle nostre maggiori città (a inizio di quest’anno solo a Roma chiudono due Feltrinelli) di chi è la colpa?
Lo scrittore Claudio Morici in un illuminante articolo investigativo apparso lo scorso giugno su L’Internazionale titola “Il delitto perfetto, indagini sulla chiusura delle librerie a Roma.” Cercando tra Amazon, le grandi catene, il ruolo delle istituzioni e la miopia di un popolo poco avvezzo alla lettura chi sia il vero e ultimo responsabile di un’ecatombe culturale che non dà segnale di arrestarsi.
“Siamo un’industria solida, la prima industria culturale del Paese, ma continuiamo a camminare su una sottile lastra di ghiaccio, in un’Italia, come dimostrano i dati sulla lettura e sulle competenze linguistiche degli italiani, che ha un disperato bisogno di una vera e potente politica per la lettura”, afferma il presidente dell’Associazione Italiana Editori (AIE), Ricardo Franco Levi, al Salone Internazionale del Libro di Torino lo scorso anno. Un timido segnale positivo si registra nel fatturato per il mercato del libro nei canali trade del + 0,6% nei primi mesi del 2019, rispetto alla chiusura in negativo del -0,4% dell’anno precedente. Troppo poco per un Paese che continua ad assestarsi come fanalino di coda di un Europa più colta e lungimirante; che nelle classifiche del ranking europeo riesce a posizionarsi davanti solo a Slovenia, Cipro, Grecia e Bulgaria.
Cosa è che non funziona con noi italiani, che secondo gli ultimi dati Ocse, abbiamo serie difficoltà a comprendere un testo scritto?
Colpa della produzione smisurata di avvincenti serie tv che hanno il potere di tenerci incollati sul divano sottraendo tempo a un’attività, quella della lettura, certamente più creativa ma anche più impegnativa? Non è sempre così perché le stesse spesso bistrattate serie tv hanno finito negli ultimi anni per costituire un motore di vendita importante per i titoli di maggior successo, come dimostra l’esame condotto grazie alla collaborazione con IE – Informazioni Editoriali su alcune delle serie televisive più amate, da L’Amica Geniale a Gomorra, da Il Trono di Spade a Tredici. Sebbene le serie tv siano disponibili sulle piattaforme Netflix, Amazon Prime Video e Sky, le copie dei libri dai quali vengono tratte risultano essere aumentate e in vetta alle classifiche dei best-seller.
Se tante librerie a conduzione familiare chiudono non è quindi colpa delle serie tv o almeno non è la causa diretta del loro “fallimento sociale”.
Parliamo allora di Amazon e del ruolo che ha ormai assunto nelle nostre vite. Si può comprare impunemente a qualsiasi ora del giorno e della notte avendo uno strumento che ce lo consenta e una connessione decente. Milioni di titoli a disposizione, pagamento sicuro, consegna a domicilio in tempi brevissimi. Un servizio che non ha pari nella storia del consumismo post moderno. Cambia la domanda e l’offerta si comporta di conseguenza interpretando i tempi, anticipandoli. Rendendo tutto sempre più performante, appetibile. È mutato in questi ultimi anni in maniera radicale il nostro approccio nel fare acquisti. Si preferisce rapidità, comodità ed efficienza a discapito dell’attesa, dell’uscita, dell’esperienza. Viene poi spontaneo chiedersi: ma se tutto deve essere sempre una corsa a ostacoli per fare prima, alla fine chi avrà vinto? Perché il sospetto è che se con tutta la tecnologia e i servizi che abbiamo a disposizione non ci resta tempo da dedicare a noi stessi e ai nostri bisogni, probabilmente ci hanno un po’ fregati tutti. Anyway, il discorso è ampio e non riguarda solo i libri. È difficile poter competere con gli innegabili vantaggi sopraelencati, sui quali lo sconto sistematico e un regime fiscale agevolato costituiscono un colpo di grazia ai poveri librai, rei di essere ancorati a un passato nel quale i libri si vendevano passandoli di mano in mano, si consigliavano con competenza e si posizionavano con contezza nelle vetrine fisiche, prima che banner pubblicitari e pop up virtuali impazziti invadessero le nostre vite.
Ma Amazon però si spinge oltre. E scopriamo che il Ciclope gigante dell’età contemporanea non uccide il povero Ulisse ma forse lo salva addirittura, aprendo le sue azioni tentacolari alla distribuzione. Nasce così Amazon Business, piattaforma che dà la possibilità alle librerie di registrarsi “beneficiando di una selezione di circa 800mila titoli immediatamente disponibili con sconti fino al 35% sui libri di varia natura e fino al 12% sui testi scolastici, con resi gratuiti fino a 120 giorni. Si usufruisce di tutti i benefici dell’account aziendale, come l’impostazione di procedure di approvazione degli ordini, limiti di spesa personalizzati e la gestione semplificata delle fatture”. Una mossa stavolta a sostegno delle librerie, ma evidentemente contro la filiera distributiva di Messaggerie & co che in questo modo vedono seriamente minacciato il proprio ruolo.
Amazon che annienta, Amazon che aiuta. Un presente dal quale è comunque difficile affrancarsi.
Pur reiventandosi, aprendosi a esperienze diverse, una piccola libreria dovrebbe poter vedere riconosciuto il diritto di sopravvivere facendo la cosa per la quale è nata: vendere i libri. Senza che tutto debba trasformarsi inevitabilmente nell’ennesimo tempio profano per la somministrazione di cibo e bevande, epilogo al quale spesso giungono in molti.
Storie di librai coraggiosi ci hanno raccontato nel corso di questi mesi che sono partite azioni dal basso, cittadinanze attive che hanno sostenuto anche economicamente questi avamposti della cultura per evitare che scomparissero: dalla libreria Libridine di Portici a Pecora Elettrica del quartiere Centocelle a Roma, la storia di vere e proprie azioni di resistenza sono sempre più diffuse.
Non possiamo rinunciare a servizi di vendita online come Amazon, perché il progresso non si ferma, perché Amazon ci piace, perché è giusto che sia così. Ma non possiamo nemmeno vivere in città dove valorosi commercianti siano costretti da tasse sempre più pesanti a chiudere i loro negozi, e anche le loro librerie. Pensiamo solo ad un dato: nel Centro e nel Sud del paese, secondo uno studio Nielsen, un terzo dei comuni con più di 10.000 abitanti non ha neppure un negozio di libri.
Tristezza infinita.
Mentre in Francia il ministero della cultura ha iscritto “le tradizioni e le conoscenze dei librai” nel patrimonio culturale immateriale, primo step per proporli all’Unesco, da noi il massimo ottenuto fino a ieri, in termini di presa di coscienza della situazione e di sostegno, era stato un piccolo aiuto fiscale dato ai librai tramite la compensazione dei crediti d’imposta. Si può dare di più, senza essere eroi…
Lo scorso 5 febbraio intanto è stata approvata in Senato la Legge per la promozione e il sostegno alla lettura con lo stanziamento di 4.350.000 euro annui a decorrere da quest’anno. Tra il limite degli sconti fissato al 5% e i nuovi incentivi fiscali alle librerie immaginiamo che la situazione non possa che migliorare. Intervenuto in Senato, il ministro dei Beni e le Attività Culturali Dario Franceschini dice: “Le piccole librerie tengono vive e animate zone della città o di paesi che trovano lì un punto di riferimento”. Eh già, così è se vi pare.
Visto che un tessuto urbano non può popolarsi di sole rosticcerie, bar e compro oro, quello che possiamo fare da consumatori, e più o meno lettori, è scegliere come (e dove) spendere i nostri soldi.
Senza astenersi dall’usufruire dell’acquisto online, sforziamoci di sostenere quei librai che sanno indicarci titoli dimenticati, che sanno farci scoprire case editrici di nicchia, che possono indirizzarci verso quei piccoli editori specializzati in una particolare letteratura straniera, che ci regalano romanzi mai tradotti in Italia, eppure amatissimi in altri Paesi. In modo che queste trincee a sostegno della cultura possano continuare ad (r)esistere.
Come spesso accade, per scrutare meglio il futuro prossimo occorre rifarsi al passato remoto. E quindi a verità universalmente condivisibili alle quali già i nostri avi latini erano arrivati: In medio stat virtus.
Angela Vecchione
11 Febbraio 2020 at 13:11
io penso che il limite degli sconti fissato al 5% non è assolutamente una forma di tutela per le librerie ed i lettori… anzi si trasformerà sicuramente in un ulteriore disincentivo all’acquisto e alla lettura perché, come conseguenza immediata, porterà sicuramente ad un incremento dei prezzi dei libri (di per sé, a mio modestissimo parere, già elevati).
Le azioni da intraprendere erano più di carattere fiscale, costringendo a ridurre i costi della distribuzione (forse il vero male della crisi dell’editoria), ad incentivare le piccole case editrici, ad avviare un vero bonus cultura e non il bonus 18, elargito senza alcuna distinzione di reddito e permettendo un mercato di “vendita” dello stesso bonus tra ragazzi con possibilità economica ai più svantaggiati (siamo in Italia ed è successo anche questo). E soprattutto cercare di disinnescare la overproduzione di titoli da parte delle grandi case editrici, che finiscono con l’immettere, spesso, sul mercato “robaccia”, che non verrà mai letta e che finirà al macero, a discapito di titoli validi o di ristampe di “introvabili”
11 Febbraio 2020 at 20:43
Quelle che indichi tu caro Angelo sono sicuramente tutte misure intelligenti che incentiverebbero la lettura e aiuterebbero anche le librerie di quartiere, a mio avviso esercizi commerciali culturalmente e socialmente indispensabili. E non sostituibili in toto.
11 Febbraio 2020 at 14:59
Bell’articolo, molto lucido.
Il titolo non gli rende giustizia, forse: non è questione di vincere, ma di continuare ad avere un’utilità che vada oltre la semplice fornitura. I librai non dovrebbero essere “solo” negozianti. Un libro non è un semplice bene di consumo. E separare la narrativa scritta su carta da quella filmata o registrata o digitalizzata è un errore che ormai dovrebbe essere evidente a tutti e invece a quanto pare stiamo ancora a pensare che chi non legge non lo fa perché guarda film o serie tv (o perché gioca al pc o ascolta musica – e chi legge blog o altro online “non sta veramente leggendo”).
Forse finalmente si capirà come cercare le sovrapposizioni e i modi per far crescere insieme queste esperienze, che alla fine rispondono tutte alle stesse domande. (Forse si capirà anche che se la gente non ha abbastanza tempo libero, il mercato del tempo libero ne risente – questo per la verità lo hanno capito a più riprese diverse persone nella storia, ma evidentemente va rinfrescato, ogni tanto)
11 Febbraio 2020 at 20:51
Certamente caro lettore le librerie che sopravvivono oggi sono quelle che si astraggono dalla mera vendita di libri per diventare entità più complesse, come organizzatori di eventi, fornitori di servizi. Somministratori di cibi e bevande. Chi apre una libreria però non può prescindere dall’amore e dalla conoscenza dei libri, questa condizione necessaria (purtroppo non sufficiente) la si incontra in ogni libraio di quartiere al quale sta a cuore la sua “missione”. Personalmente credo che ogni piccolo centro “meriti” la sua libreria. Pure se acquistiamo online e va bene così. Una piattaforma virtuale non può sostituire un luogo nel quale sfogliare libri, annusare storie, scambiarsi consigli di lettura, ripararsi dalla pioggia, sedersi e assaggiare un romanzo.