Numero 19 | Aprile 1999

Ritoccami il cuore
ritorniamo poeti
regalami gli occhiali rossi
che accentuano il sole
montino le parole
lo spazio vedovo
così concavo di vuoto
parole invadenti.

Ritorniamo poeti.

Non stiamo attenti
così sterili
in questo tempo stento che ci è dato
come tanto
composto come in una vita
si dispiega un’eredità,
l’ammasso che per chi s’accumula
in questo grasso
non fare e inebetire
ristagna, non si dilapida
pietra su pietra, o denaro su denaro
senza parere, come niente, e sostare.

O caro,
poeta che non dici: è sbagliato
negare questa nostra
paura di sparire


E i giovani che passano discinti
i musi smunti, la musica del
tirasegno.

Rimanere è anche vegliare
prendere su di sé un impegno.

E noi a questo bar ad una cara
ironica sapienza avvinti
e tu che ordini una carbonara.

Fare la guardia, custodire.

E la ragazza ossuta che borbotta,
due cani uguali sotto le gambe
del tavolino che si accoppiano
o cosa pensano di fare
nessuno osa guardare.
Ti portano una pasta scotta,
collosa.

Partire è perdere il controllo
sui mutamenti,
lasciare il dominio ad agenti ignori,
a qualche iddio che smuova
i meccanismi immoti.

Che carbonara è senza le uova?

Iddio che ti compiaci
delle nostre partenze,
giudichi, godi dei nostri ritorni
noi colpevoli ignari.

Per questo hai creato i venti,
i mari.

E noi improvvidi che li solchiamo
e della naturale varietà casuale
degli eventi
stupevolmente ci addoloriamo.

Secondo me non ha la faccia Dio.
Pennella il cielo un’aria
così varia, che non sta,
ogni tratto a un colpo si fa altro,
ora scruta, ora sorride, nessuna posa
dura.
Esiste senza un volto.

E chi ci guarda, noi,
che viviamo nelle nostre reciproche
pupille?

(spettinami di più, quando sui colli
ti piace brizzolare la strada dei tuoi
passi
o quasi vecchio:
siamo solo quel giglio sulla spiaggia
che in piena sabbia germoglia,
strapazza sottovento, odora oh
quanto odora)

Poi, per il resto,
per quel che ti dicevo prima,
ignora.

La bellezza del ritornare poeti, aldilà di ogni intellettualismo e facile piacevolezza. Dire ciò che esiste, vedere soprattutto, e sostare nella vista con coraggio, annotare i mutamenti del mondo e delle cose in una nuova e lucida topografia e tuttavia rimanere saldi, nudi forse, soli ma saldi.

Ecco l’invito più puro e sincero di Paola Mastrocola, poetessa torinese autrice de La fucina di quale Dio (Genesi editore, 1991) e di queste bellissime poesie inedite: poesia nasce nell’ora dell’ascolto, nell’aver visto e sentito, toccato la bellezza ma anche la bassezza del mondo, i cani sotto un tavolino da bar, intenti ad un cieco accoppiarsi, i gigli sulla spiaggia («siamo solo quel giglio sulla spiaggia che in piena sabbia germoglia, strapazza sottovento, odora oh quanto odora»), le orme dei gabbiani e i venti e Dio. È necessario essere arrivati al fondo di se stessi per riemergere poi consapevoli, in pura attenzione e dedizione al mondo.

Parole e cose nella loro nudità e crudezza, nel loro viversi accanto condividendo un destino comune: destino di finitudine. Oltre la «letteratura», verso il mondo. Non sono molti i poeti così veri ed essenziali e la Mastrocola è uno di questi. E torna alla mente la figura di Marina Cvetaeva che scrive nella sua soffitta a Mosca mentre fuori infuria la rivoluzione, in condizioni di estrema povertà, dopo aver tagliato la legna, lavato piatti e pavimenti e girato la città intera in cerca del cibo per le due figlie. Scrive a lume di candela, parole incise nel marmo, parole dure perché nate dall’esperienza diretta e purificatrice del mondo con tutto ciò che esso comporta, parole che tagliano il cuore e che pesano come la legna i piatti la pagnotta di pane.

La poesia di Paola Mastrocola è poesia così dura e vera, puntata sul mondo in solitudine («Secondo me non ha la faccia Dio… E che ci guarda, noi che viviamo nelle nostre reciproche pupille?»). Puntata sulle cose, ed al di là delle cose su ciò che le anima e resta immutato mentre tutto si muove seguendo i percorsi del vento ed i mari. Vera poesia che ci accompagna nelle notti insonni e tormentate da domande senza risposta. Compagnia. Consolazione. Perché le parole possono ancora consolare con il loro aver compreso la solitudine e la bellezza dell’umano spazio.

Elena Varvello

Il libro nel 1999

La fucina di quale dio di Paola MastrocolaPaola Mastrocola
La fucina di quale dio
Genesi editrice, 1991
Collana: I gherigli
103 p., brossura

Il libro attualmente è fuori catalogo