Ho da sempre avuto paura di due cose; della vita e della morte.
In tutto lo stare necessario per tenere a bada l’una e l’altra cosa, ho spesso pensato che la risorsa prima e necessaria fosse quella di ottimizzare ciò che potevo, non abbassare mai lo sguardo e sorvegliare costantemente i miei parametri vitali, per assicurarmi che almeno una delle due cose (la morte) fosse scongiurata. In psichiatria questo ha un nome che non starò qui a dire, perché i cartellini non mi interessano, interessano i medici e pochi altri soggetti per nulla rassicuranti.
Ho preso in mano Lady Lazarus e altre poesie nella prima edizione Mondadori del giugno 1976, quella curata da Giovanni Giudici, ho aperto il libro quasi a metà; uno strappo veloce che ricordava un’esecuzione, ho chiesto a Sylvia di essere clemente, ho letto e Lei mi diceva:
Ora taccio,tutta odio, / Fino al collo, fin qui, / D’uno spessore così. / Come vestiti buoni impacco le dure patate. / Impacco i bambini / Impacco i gattini malati. / O vaso di acido, / Tu sei colma d’amore. E lo sai tu chi odî.
Le ore successive sono state di lettura vorace, alternate a cibo e acqua. Ho accettato qualsiasi forma di dolore alzando la soglia di sopportazione, per comprendere dove fosse l’arrivo, la somiglianza che rendesse me e Plath frutti dello stesso albero. Ho ritrovato una sorella stanca, il cui scrivere era l’unico sistema per garantirsi sopravvivenza. Ci sono espedienti che ci aiutano a protrarre la vita, ci permettono di stare al mondo con dignità. Leggere la poesia di Plath è una corsa in un non luogo, il bagnasciuga della vita con il terrore del mare profondo e l’angoscia della sabbia bollente che scotta sotto le dita dei piedi. Ho quindi pensato che tutto questo concorresse all’intuizione ultima, un po’ spaventosa lo ammetto, che io, nel tempo presente che sono obbligata a subire, non sono capace a stare e per stare intendo vivere e non sono capace di andare e per andare intendo morire. La poesia appunto, in quel momento non era la mia casa, non era corrispondente. Non riuscivo io a scriverne e non riuscivo a leggerne. Mi son detta, vedi tu se mi si deve chiedere di dialogare con Sylvia, la suicida per eccellenza, in un momento di completa resa personale. Ho iniziato ad avvertire, posto tutto questo, superato un primo momento, una vicinanza femminile non fatta di parole ma di vita, di malessere quotidiano, di tentativi di sopravvivenza. Vicinanza personale, il bene che si vuole ad un’amica cara, l’empatia per un momento di cedimento. La vicinanza alla morte.
In un certo senso, mi era stato chiesto pane e io riuscivo a fornire acqua. A volte è stronza la vita, ci salva, ci sana senza saperlo, scrivere questo pezzo è stata poi resurrezione per me. Ho temporeggiato ammetto, avevo timore che ciò che era stato suo diventasse ancora di più mio in quel momento di estrema vicinanza, che lo scambio fosse nero, che in qualche modo si mischiassero i fluidi, i miei e quelli di Sylvia, in un calderone tetro. La poesia è potente, questo ho imparato, è permeante e totalizzante. È la risposta a molte cose e contemporaneamente la domanda mai risposta.
Alla base di tutto però c’è la vita, prima nebbia settembrina, che emana ciò che poi lo scrivere forma. La poesia è condensa.
Io sono verticale / ma preferirei essere orizzontale. / Non sono un albero con radici nel suolo / succhiante minerali e amore materno / così da poter brillare di foglie a ogni marzo, / Né sono la beltà di un’aiuola/ ultradipinta che susciti gridi di meraviglia, / senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali./ Confronto a me un albero è immortale / e la cima di un fiore, non alta, ma la più clamorosa: / Dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.
Le persone dismesse, le questioni inaffrontabili, i gatti malandati con le orecchie putrescenti, le piante appese con una sola radice alla vita che non sanno più se essere vive o morte o quiescenti – come a me spesso accade – , giungono a me come se li chiamassi, come possedessi una calamita per le stramberie, le mancanze. Sono la loro madre che medica e salva dove c’è carenza, dove si può. Le piante che abitano la mia casa sono spesso incidentate, mi hanno chiesto di poter entrare in un modo o nell’altro e si sono accomodate qui e lì, in silenzio, in una casa che diventa più verde giorno dopo giorno.
Verdi le pareti, le stoviglie, il mobilio, verde io in uno stato di torpore.
Nei momenti di depressione – la loro, la mia – che negli ultimi anni si sono succeduti brevi e distanti, ho lasciato che qualcosa morisse, senza volerlo si intende. Meno accorta nell’acqua, meno perspicace nell’osservare i parassiti. Le mie radici andavano e loro con me, dipendenti da me, si lasciavano sopraffare da una bestia o quell’altra. Un grande bosco siamo io e le mie piante, abitiamo gli stessi malanni e ci confidiamo cose all’orecchio quando nessuno ci ascolta. Loro pronte alla fine, io che mi faccio salvare sentendomi capace e legittima solo vedendole star bene e splendere di vita.
Tra le mie preferite le aracee, tra le aracee una monstera deliciosa enorme salvata da morte certa in un centro commerciale che anno dopo anno ha fatto foglie sempre più grandi. Fuori d’inverno, fuori con il caldo, resistere è anche la pretesa di restare nonostante le condizioni in continuo mutamento. Sapessi io stare come loro senza far comandare il tempo, senza chiedere tempo in cambio.
Io non volevo fiori, volevo solamente / giacere a palme riverse ed essere tutta vuota. / Come si è liberi, liberi da non credersi. / La pace è così grande che abbaia.
Io ho trovato pace nella poesia e nelle piante, il verde che cresce rinnova, evolve, rinfresca. Plath ci rivela qualcosa di violento e primitivo; si può sacrificare tutto per una nuova nascita. All’estremo di questo c’è il suicidio ma un attimo prima la scrittura, per lei e per me.
Credo ora, dopo aver passato tempo prezioso con questa amica, di poter sostenere che mai lei avrebbe voluto morire. Non mi riferisco a tutto quello che è sempre stato detto, alle ipotesi ormai conosciute sulla semplice richiesta di aiuto trasformata in tragedia, quanto alla necessità di far morire un IO vecchio e logoro per privilegiare il nuovo, l’autentico.
Nei diari, che sono da sempre l’altra parte di noi, la consolazione scritta e la tenerezza di ogni nostra parte fragile, lei è pulita e libera.
“Luglio 1950. Forse non sarò mai felice, ma stasera sono contenta. Mi basta casa vuota, un caldo, vago senso di stanchezza fisica per aver lavorato tutto il giorno al sole a piantare fragole rampicanti, un bicchiere di latte freddo zuccherato, una ciotola di mirtilli affogati nella panna. Ora capisco come la gente possa vivere senza leggere, senza studiare. Quando uno è così stanco, alla fine della giornata ha bisogno di dormire e il mattino dopo, all’alba, lo aspettano altre fragole da piantare, e così si va avanti a vivere, vicino alla terra (…)”
È una mente in continua evoluzione, che si sofferma e riparte, quasi mai pacata, tormentata e scricchiolante, come anche io sono. Mi viene voglia tutt’ora a distanza di giorni, di anni, di tenderle la mano e invitarla con me a mettere le mani in terra. Abbiamo occhi simili io e Sylvia e la stessa smoderata compassione.
Cara Sylvia, le fragole rampicanti non esistono, i miei cavoli crescono meravigliosamente con questi primi freddi. Fosse per me, tutto dovrebbe rimanere sempre magicamente così, con questa luce calda che taglia ogni cosa, il buio presto, le foglie turgide. L’aria profuma di gatti al sole e non so quale sorte mi tocchi domani, sento quella stanchezza che dici, stanotte farò un buon sonno. Custodisciti come puoi. E poi salvami.
Giulia Fuso
E tu cosa ne pensi?