Il viaggio inizia nell’auto del professore, una mattina qualunque, andando a scuola. Oltre il finestrino si snoda una strada «fatta così, inferno e paradiso, inferno o paradiso, spesso artificiale, mentre il purgatorio assume contorni indefiniti e mutevoli» (p. 13). Siamo a Tor Bella Monaca, periferia romana, in una terza media. La scuola, qui e altrove, nonostante tutto, segna un avamposto di quello che dovrebbe essere lo Stato, combattendo continue e silenziose battaglie per l’educazione alla legalità, l’inclusione sociale, il contrasto alla dispersione scolastica, l’educazione alla relazione e alla bellezza in una società sempre più individualista e tesa al raggiungimento dell’utile. In alcuni casi, la scuola, al netto delle sue criticità, resta un posto altro, una possibilità, talvolta una salvezza.

In un contesto difficile e segnato da contraddizioni e povertà profonde, un professore decide, sfruttando la sua competenza e passione per Dante, di ricominciare dalle origini e di imbarcarsi in un’apparente pazzia: leggere ai ragazzi Dante, il padre della nostra lingua, per parlare del presente, per trovare le parole per imparare a raccontarsi e a raccontare l’inferno, il purgatorio, il paradiso che ognuno, anche a tredici anni, attraversa. Per insegnare che non c’è letteratura senza vita, senza una ferita che brucia con la quale confrontarsi. Si può usare Dante per parlare di educazione civica, di politica, di sport e di musica trap. Del dolore e dell’amore. Sembra un progetto folle, che pone il professor Sbaraglia davanti alle perplessità di preside, colleghi, genitori lì dove più che leggere Dante sembrerebbe necessario imparare a leggere, scrivere, far di conto. Sviluppare, insomma, quelle che in didattichese si chiamano “competenze di base”, utili a destreggiarsi nella vita quotidiana. Eppure Sbaraglia resta convinto del profondo valore di una conoscenza che vada oltre l’utilitarismo a cui è ormai asservita la didattica nella scuola italiana e, da ostinato Virgilio, persegue il suo cammino verso un compito più alto e che molti docenti purtroppo dimenticano, sommersi tra le ansie e le burocrazie quotidiane: educare alla bellezza.

La narrazione procede in prima persona, attraverso il racconto di alcune lezioni in aula e del loro impatto sulla fantasia e sulla vita dei ragazzi. Obiettivo principale: arrivare a far ammettere che Dante è meglio pure di Totti, coinvolgendo piano piano tutti gli studenti, Danilo, Kevin, Samuel Beatrice, Nicolas, Giovanna, unendo l’italiano contemporaneo ai versi della Commedia e al dialetto romanesco. In questo itinerario, che si conclude con una rocambolesca gita a Firenze sui luoghi del Poeta, non saranno solo gli studenti ad imparare.

L’autore, ex-ricercatore precario, con un realismo che non cede mai alla retorica, offre dei cocenti tranches de vie sulla scuola italiana, sulle sue criticità ma anche sulle grandissime potenzialità offerte da una classe docente che per lo più non ha ancora smesso di credere nel valore della Pubblica Istruzione quale strumento di inclusione ed emancipazione sociale.

In questo breve 🔗romanzo, utile non solo per gli insegnanti ma anche e soprattutto per chi in una scuola non abbia mai messo piede, l’autore consegna una testimonianza preziosa sulla scuola che esiste e resiste, al di là degli stereotipi, e sul valore, in molti casi salvifico, della poesia.

Maria Consiglia Alvino