Per una lira è il titolo di una canzone di Lucio Battisti che comincia così: Per una lira io vendo tutti i sogni miei. E poi la voce a strisce di Battisti racconta la storia di qualcuno che a malincuore si distacca da una parte di sé. Ascoltandola, ho sempre pensato a chi scrive. In particolare agli esordienti. Chi, per la prima volta (e spesso per una lira) consegna il proprio destino al mondo. Nell’incertezza e nell’imprecisione, un esordio insegna a scrivere più di un capolavoro (anche quando le due cose coincidono: David Foster Wallace, La scopa del sistema, 1987). Per una lira è uno spazio dove leggendo le nuove voci della narrativa, italiana e straniera, metteremo in luce alcuni aspetti di un romanzo legati al gesto dello scrivere per la prima volta, ovvero alla scoperta della propria voce.
Alessandra Minervini tiene corsi di scrittura, scrive e legge molto. Il suo sito è alessandraminervini.info.

In un albergo di New York per sole donne, Esther, diciannovenne di provincia, studentessa brillante, vincitrice di un soggiorno offerto da una rivista di moda, incomincia a sentirsi «come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi»…
mondadori.it
Lezione n. 65
La meta-autobiografia letteraria
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«Per tutta la mia vita mi ero detta e ripetuta che il mio più grande desiderio era studiare, leggere, scrivere e lavorare lavorare lavorare,
e del resto sembrava proprio la verità: ero sempre stata brava in tutto,
avevo sempre preso il massimo dei voti,
e adesso, al college, nessuno mi fermava più.»
C’era una volta Victoria Lucas, aveva scritto per tutta la vita, dai tempi del College probabilmente fino al giorno prima di morire, circa un mese dopo la pubblicazione del suo primo, e unico, romanzo: La campana di vetro. Il suo nome in realtà è Sylvia Plath tranne quando si tratta di Esther. Per lei, per Esther Greenwood (“dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè a Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro a respirare la mia aria mefitica”) che Sylvia diventa Victoria. Troppa vergogna per firmare con il suo nome l’esordio in prosa, nel 1963. Un libro che se fosse un mantra sarebbe: “Le persone mi piacciono molto oppure per niente.” Un pensiero che lei stessa partorì come Atena da Zeus, tra una poesia e una pagina di diario, passando per la stretta dei rifiuti editoriali, le crisi, i brutti andamenti al corso di scrittura creativa. Plath era nero o bianco. Dentro o fuori. La nettezza del pensiero è la qualità più riconosciuta alla poetessa americana, nata il 27 ottobre del 1932 in una famiglia di origine tedesca, trasferitasi a Boston. In quell’anno, quando Plath nasce, Salvator Dalì dipinge “Il simbolo agnostico”: un olio su tela dove un cucchiaio emerge da una parete, semi invisibile e incrinata sullo sfondo: la materia si regge sul vuoto come la scrittura sull’immaginazione. Se dovessimo pensare a un’espressione che ricalca il pensiero narrativo in prosa di Plath, questa sarebbe “un pensiero agnostico”: un atto che si rivela al di fuori di ogni credenza, la sospensione del giudizio da qualsiasi problema avvertito come irrisolvibile. Agnostico, che deriva dal greco ἄγνωστος vuol dire «ignoto». La vita della protagonista de La campana di vetro è un viaggio nell’ignoto, nell’accezione più estrema dal momento che è lei stessa ignota a sé. Non sa chi è stata, chi può essere e chi sarà. Esther è una ragazza piena di talento, vitale, spiritosa e maliziosa, bellissima e vanitosa; magnetica nel suo calore distante, come gli enigmi in versi di Plath: “Non sono crudele, sono solo veritiera”. Esther rappresenta una delle figure più misteriose della letteratura contemporanea. Tanto mistero, tanto fascino. Ha una personalità che strozza quella di chi le sta intorno, perfino la madre e lo psichiatra sono cenere davanti a lei. Come lo Scorpione, un segno che unisce Plath alla sua anima gemella letteraria, Anne Sexton. Entrambe poetesse, entrambe discepole del poeta statunitense Robert Lowell, padre della poesia confessionale che, alla fine degli anni Cinquanta, diffonde una scrittura in versi ispirata alla vita personale. Entrambe, Sylvia e Anne, sono troppo vive per continuare a vivere, autrici di meravigliosi versi anticonformisti, accumunate dalla disperazione di non riuscire a cogliere tutta l’ebbrezza della vita. Per via degli altri. Amori o non amori, vissuti come ostacoli alla totalizzante rappresentazione di sé nelle parole prima che nei fatti.
Non sapremo mai davvero cosa genera la vergogna del personaggio e della storia di Esther in Plath. Quale limbo autobiografico sceglie di dissimulare. Se il fatto di non essere presa in considerazione sufficiente dal giornale per cui scrive; di essere isolata dalle amiche avide di sesso come forma di supremazia prima che di piacere; se si vergogna dei commenti esasperati per la sua aggressiva verità; oppure è il ritratto che emerge della madre di Esther pronta a dirle prima di tutto ciò che non va prima di qualsiasi parola di bene; se si specchia nella vergogna di Esther quando i ragazzi sono incapaci di conoscerla fino in fondo; se vuole nascondere le scosse con l’elettroshock. Se si vergogna del dolore. Oppure di quella fame misteriosa e deliziosa insieme con cui la giovane protagonista del romanzo spesso si ritrova a fare i conti: divorare la vita o farsi divorare da questa?
«Non so bene il perché, ma il cibo è una delle mie più grandi passioni. (…)
I nostri pranzi andavano in conto spese e perciò non mi sentivo in colpa.
E poi badavo a mandare giù tutto in fretta, in modo da non fare aspettare gli altri,
i quali di solito ordinavano soltanto un’insalata e un succo di pompelmo perché erano a dieta.
Quasi tutte le persone che avevo conosciuto a New York erano a dieta.»
Se c’è un modo scorretto per leggere La campana di vetro, specie se state scrivendo e se non avete messo un punto a quel romanzo che assomiglia alla vostra vita ma non è per niente la vostra vita, questo modo scorretto è conoscere la vita vera di Sylvia Plath e poi l’esistenza letteraria di Esther Greenwood. Niente coincide, tutto coincide. Non sta a me svelare cosa e come e quanto. Chi è la ragazzina iper-intelligente, la prima della classe, l’autrice di racconti giovanili e genio precoce e dotata delle più imperdonabili qualità per il mondo delle lettere: la bellezza? “Non mi hanno detto che eri bella!” dicono a Plath, quando sta al College. Lo stesso accade a Esther: bionda, sorridente, con le ciglia lunghe. Una strega magica. Amava il rossetto e lo smalto per unghie color ciliegia, con una spudorata passione per l’estetica e per la moda, collaboratrice di una rivista femminile, circondata da colleghe arriviste e pronte a tutto, tranne a essere sincere.
«Mi sembravano annoiate a morte.
Scambiai due chiacchiere con una di loro: era stufa di yacht,
stufa di girare il mondo in aeroplano, stufa di andare a sciare in Svizzera per Natale,
stufa degli uomini del Brasile.
Ragazze del genere mi davano il voltastomaco. Mi sento soffocare dall’invidia.»
Per Esther il rimedio a se stessa non esiste, esiste solo il disturbo di essere se stessa. L’esistenza di Esther è una giostra lenta e meccanica, un’altalena vuota che plana nel pieno. Prima tanto amore per qualcuno, poi tanto odio per lo stesso. Prima un effluvio di parole, poi la definitiva dissoluzione con un ragionato silenzio. La storia di Esther è in continuo rapporto dialogico tra carnale e intellettuale, bellezza ed etica: un personaggio che dice talmente tanto di Plath che si finisce per non saperne abbastanza. Si rimane assetati.
«Il silenzio mi fece sentire depressa.
Non era il silenzio del silenzio. Era il mio silenzio.»
La campana di vetro è un romanzo che pone al centro della vicenda il salto nel vuoto verso l’età adulta della protagonista per cui l’esistenza è paragonabile a una campana di vetro, nella quale finché si sta dentro si sta bene come una lampadina spenta che non si consuma e non produce calore. La campana di vetro ha cambiato schemi e strutture del romanzo tradizionale, una sorta di Giovane Holden al femminile.
Il modo più corretto per leggerlo è dimenticare Sylvia Plath, accogliere la storia di una ragazza troppo giovane e troppo adulta, troppo coraggiosa e troppo piena di paura, troppo vicina all’essenza della vita da volersene liberare. Il modo corretto per leggere La campana di vetro è con i ragazzi e le ragazze, nelle scuole, nelle università, nelle famiglie. Come la vita anche la morte non è un tabù. Meglio parlare con le campane di vetro che ci circondano invece di piangerle.
«L’aria della campana di vetro mi premeva intorno come bambagia
e io non avevo la forza di muovermi.»
Leggiamo la storia di Esther come la nostra storia o come quella di Sylvia Plath, ma mai come una macabra autoprofezia. Bisogna leggere questo romanzo come una lezione di realtà non ancorata alla verità. Come il (bel) finale suggerisce, l’esordio di Plath è una finestra sul volo pindarico di chi cerca la propria identità non nel confronto imitativo con gli altri ma nel proprio destino, migliore di ciò che la realtà prospetta.
Piccola bibliografia
Sylvia Plath, La campana di vetro, Mondadori 2023
J. D. Salinger, Il giovane Holden, Einaudi, 2014
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