“Nel 1513 Nunez de Balboa dall’altura di Darien è il primo europeo che scorge l’Oceano Pacifico. Da questo giorno non esistono più per l’umanità mari sconosciuti”.

Così Stefan Zweig chiosa nel suo Magellano quegli straordinari cinquant’anni a cavallo tra il quattro e cinquecento nei quali furono scoperte terre nuove come mai prima e mai dopo, nella storia dell’umanità. Oltre alle Americhe sono Terranova, il Brasile, il Labrador, il Madagascar, Mauritius, la Malacca, la Florida i nomi che vengono aggiunti  forsennatamente alle carte geografiche mai aggiornate abbastanza rapidamente.

Questo compito vastissimo è opera di una sola generazione, i suoi navigatori hanno superato i pericoli per tutte le generazioni future, i suoi conquistatori hanno svelato tutte le vie, i suoi eroi risolto tutti, o quasi tutti i problemi.”

In seguito, i tempi di Robinson Crusoe, del capitano Cook e della Beagle non sembrano altro che il lento raffinamento di scoperte già compiute.

È a quegli eroi dai nomi mitologici di Vasco da Gama, Ponce de Leon, Amerigo Vespucci, Magellano, Pinzón e Cabrál che all’inizio dell’estate gli amanti dei viaggi avventurosi rivolgono i loro pensieri e le loro maledizioni. A partire da quella generazione di eroi ingordi il mondo ha esaurito le terre da scoprire. La fotografia satellitare, i viaggi low cost, Google Maps, il GPS hanno compiuto l’opera: lo spazio del mistero si è talmente ridotto da lasciare orfani di emozioni gli esploratori contemporanei. Esploratori che nel periodo delle ferie si vedono condannati alle 10 migliori mete per le vacanze in famiglia.

Un rimedio è rifugiarsi nei libri. Libri da portare sulla spiaggia per continuare a sognare. Ma consumate le opere dei grandi peregrini come Polo, Chatwin, Stevenson, Kerouac o Fermor, cosa resta? Per fortuna la quantità di avventura contenuta in un viaggio non si misura in chilometri. Piccoli spostamenti in territori conosciuti, vicini, persino abituali possono nascondere storie indimenticabili. È il viaggio minuscolo del biglietto urbano, della corsa in taxi, del trasporto locale, senza l’enfasi della scoperta, senza la paura dell’imponderabile, scevro da ogni pericolo. È il regno dei viaggi di lavoro, dei commuters, dei pendolari e dei commessi viaggiatori, degli autisti. È il peregrinare abituale di coloro che si spostano per dovere e in questo spostamento rischiano di trovare l’avventura quotidiana. È quasi una nuova categoria letteraria: la letteratura di viaggetto.

Ecco tre libri di viaggi non troppo lunghi ma densi di sorprese.

Tokyo Express, Matsumoto Seichō, Adelphi

Lei invece leggeva quei numeri (gli orari del treno) e già si sentiva in viaggio: era questa la sensazione ad animare la sua scrittura.

Il primo titolo non poteva che essere giapponese. Una storia ambientata nel paese che ha elevato il pendolarismo a forma d’arte e categoria della morale. Con i suoi treni ossessivamente in orario e una rete di comunicazione al limite della fantascienza il Giappone vive di piccoli spostamenti. Tokyo Express è una detective story che si sviluppa, scandita dai ritmi dell’orario ferroviario, tra le tre maggiori isole del Giappone: Kyūshū, Honsū, la più settentrionale Hokkaydō.

Tutto comincia quando sulla costa della più meridionale delle tre isole viene rinvenuta una coppia di presunti suicidi: un funzionario governativo interessato da un’indagine di corruzione e la sua amante. Anche del suicidio il Giappone è paese esperto, quindi nulla di straordinario. Eppure la cocciutaggine di due investigatori, uno locale, uno proveniente da Tokyo, riserveranno alla storia un finale inatteso.

Tutta l’indagine corre sul filo delle intersezioni delle linee ferroviarie che uniscono  le tre isole, una ricostruzione intrecciata di stazioni, testimonianze di controllori e gestori di ryokan gli alberghi tradizionali, insieme ad un’accurata collezione di documenti di viaggio.

L’autore, Matsumoto Seichō, si è guadagnato l’appellativo di Simenon giapponese, ma mentre Maigret scava nelle vicende umane di vittime e carnefici, gli investigatori nipponici si intestardiscono sugli orari, le coincidenze, le durate dei percorsi. Poca importanza e riservata alle ragioni de delitto e neppure alla dinamica: la spiegazione è relegata alle ultime pagine. Una crime fiction all’inglese, dove il meccanismo ad orologeria è garantito dal rispetto ferreo degli orari, possibile solo in Giappone, e dove i poliziotti del paese con il più basso indice di criminalità del mondo industrializzato, possono dedicarsi con pazienza e caparbietà a dirimere i più piccoli indizi, viaggiando di stazione in stazione, verificando minuto dopo minuto il percorso dell’assassino.

Volga, Volga, Miljenko Jergović, Zandonai Editore

Nessuno andava in direzione della Bosnia e nessuno tornava. Le ruote della mia Volga solcavano la neva intatta. Ero il primo, come se per questa strada non fosse mai passato nessuno. Come se la strada non ci fosse nemmeno. Nel retrovisore seguivo la traccia che rimaneva dietro di me. Due striscie nella neve che iniziavano da qualche parte nell’infinito e terminavano sotto le mie ruote.

Diametralmente opposto nella consistenza, nel tema, nel sapore il piccolo viaggio di Dzelal Plijelivjak nella jugoslavia di Tito. La Volga del titolo è l’auto che dal 1956 al 2010 è stata la Cadillac russa e che l’autista civile dell’esercito jugoslavo Dzelal ha acquistato da un generale. Da musulmano devoto ogni venerdì raggiunge la moschea di Livno, centosedici chilometri di devozione. Nella sua carriera di autista ha scorrazzato per quella terra priva di confini, tra Croazia e Bosnia assistendo, dal suo punto di vista privilegiato, alle prime avvisaglie di quello che sarebbe stata l’implosione del puzzle balcanico.

Durante uno di quei viaggi, una foratura lo costringe a fermarsi e chiedere aiuto e da quella piccola sosta, si dirameranno le storie complicate così familiari ai Balcani, dalle vicende di ustascia islamici a quelle di generali titani caduti in disgrazia. E soprattutto la vicenda anche qui legata ad un fatto di cronaca assume una caratteristica del tutto autoctona, intrisa di Storia e di store di una terra che è stata punto di passaggio di numerosissime civiltà. Forse per questo il libro è diviso nettamente in due parti: la prima è raccontata in prima persona dal protagonista, mentre la seconda è costruita come una vera e propria inchiesta, dal tono distaccato nel tentativo di far ordine in un contesto che dagli anni convulsi del macedone Alessandro non ha fatto che complicare i suoi legami, i suoi conflitti.

Strade di notte, Gajto Gazdanov, Fazi

L’intralcio maggiore alla mia prodiga curiosità e alla mia barbara ostinazione a capire ogni cosa fino in fondo era, tuttavia e oltre al resto, la mancanza di tempo libero, dovuta allo stato di profonda indigenza in cui versavo e alla necessità di concentrare tutta la mia attenzione su come procacciarmi il cibo.

Il tassista che percorre le strade di notte di una Parigi incastrata tra due guerre mondiali è per molte volte uno spiantato. È spiantato perché è russo, fuggito dalla rivoluzione bolscevica. Lo è perché fa un mestiere al quale non era destinato. Lo è perché lavora in quel momento delle città, la notte, che ne rivelano l’anima opposta e segreta. Lo è anche perché è spiantato economicamente, un autista di auto pubblica che frequenta un’umanità dolente e rassegnata, come l’ex proprietaria di una gastronomia che, in accordo con il marito si da alla prostituzione pro tempore ma che presto si trasforma in una professione definitiva e forse anche tranquilla. Il libro è una cronaca intima, una sorta di autobiografia, un viaggio nel proprio destino che Gazdanov reduce dalle sconfitte dell’Armata Bianca in Russia sbarca il lunario proprio come tassista. Per questo le sue opere pur essendo lodate da Maksim Gor’kij non videro mai la luce in Unione Sovietica.

Le sue corse sono spesso mentali, riflessioni sulle innumerevoli storie dei personaggi che gli si parano davanti nella notte parigina. Sono storie che finiscono spesso in una breve assenza del personaggio in questione e dalla notizia, come uno dai tanti pettegolezzi per far passare la notte, della sua morte. È per questa sua attenzione a desumere grandi sistemi da piccoli gesti di persone seminascoste dall’ombra dei lampioni che è stato considerato uno dei migliori talenti della letteratura dell’emigrazione russa vicino alla poetica di Proust.

Viaggi, viaggetti, viaggi senza soldi, falsi movimenti, ritorni al via. A volte ossessivi, molto spesso familiari, su sentieri battuti e ribattuti e che a ben vedere rivelano avventure forse più toccanti della circumnavigazione del globo.

Livio Milanesio

Per conoscere Livio Milanesio come scrittore potete leggere il romanzo La verità che ricordavo.
Per exlibris20 ha realizzato anche un’intervista a Cecilia Ricciarelli, libraia di Barcellona.