E dove stanno di regola, costoro? (…) all’ospizio dei vecchi all’ospedale dei matti./Ne spuntano magari nei climi meno adatti e si nascondono lí dove meno te l’aspetti./ Difatti gli F.P. sono accidenti fatali dei Moti Perpetui/semi originari del Cosmo, che volano fra poli fantastici, portati dal/capriccio dei venti.”

La canzone dei F.P. e degli I.M., Elsa Morante

L’intervallo della lezione è l’intervallo della vita in cui sembra che non ci sia mai lo spazio necessario per dire tutto quello che avremmo voluto dire ed essere tutto quello che avremmo voluto essere. E di fronte a questa impressione di immensità (e finitezza), a volte corriamo con il fiato in gola, a volte ci arrestiamo a bocca aperta. La abbracciamo o la respingiamo, la vita. Il ritmo di Vecchioni è veloce, incalzante. Una bufera di parole ed emozioni che riversa sui suoi studenti e su noi lettori. Ma poi arrivano le pause, poche, come quando resta assorto in un tempo sospeso, in una misera trattoria milanese. I suoi studenti sono appena usciti, tutti in banda. Del loro passaggio e della conversazione animata restano briciole, macchie e ghirigori su una tovaglia di carta bianca. Vecchioni sembra quasi stordito da se stesso, spaesato, insoddisfatto, perché non ha detto quello che ora gli appare come la lezione più importante.

Eppure non è stato un atto mancato. Sono arrivati fino alle radici, quei suoni onomatopeici che stanno all’inizio. Quella “m” che si torce sulla bocca per esprimere stupore, dolore, amore… Quei suoni li hanno visti viaggiare e inanellarsi in parole con prefissi e suffissi. Ma bisognava sollevare il coperchio e cercare sotto, sotto le radici delle parole. Però quella volta, nella trattoria, non è riuscito o non ha voluto aprire il vaso. Sui piattini della bilancia ci sono, da un lato, le verità, infinite come le sfumature, e pesanti, e, dall’altro, la speranza, quella che non ammicca nel tempo leggero di una strizzata d’occhio. Quella che ha il peso delle cose che non si possono dire. E il professore sta lì ad osservare i piattini. A scegliere tra la follia e qualcos’altro, che non è la normalità, ma una follia a metà. Ed è in questo soppesare, nelle pause, quando le parole e le emozioni sono strette in gola eppure fuggono dal tempo e dallo spazio e si sgranano in mille gocce, che le lezioni di Vecchioni sono davvero magistrali.

“Inondarli i ragazzi, di questa seconda verità che strozza e libera, ché non c’è libertà senza dolore, non si è uomini se non si soffre, se non si tiene salda questa infinita glottologia del mistero senza la quale non si può affrontare nemmeno la pedante grammatica del quotidiano”.

“Altrove è il canto, altrove la parola e Dio non la pronuncia”, avrebbe detto Alda Merini, a cui Vecchioni dedica un capitolo quasi nascosto tra le lezioni, eppure così centrale. Lungo i meandri dei Navigli compare Alda Merini. Sui Navigli si sono svolti tanti incontri di Alda, quella Alda che è rinata per l’ennesima volta, dopo anni di ingressi forzati e volontari nei manicomi, quando i manicomi, quelli dove ti facevano l’elettroshock, sono stati chiusi ed Alda e gli altri disgraziati come lei, sono corsi finalmente in giardino ed hanno mangiato le rose perché respirarle sarebbe stato troppo poco. “Nell’oceano della saccenza poetica maschile, Alda ci addita i mari, i fiumi, i ruscelli, i pozzi. Le sue distorsioni diventano immediate verità”.

Del racconto ispirato di quel primo incontro nelle due stanze di Porta Ticinese dove Alda viveva, mi ritorna quel volare della coperta sugli oggetti disparati che sono sul letto, giusto per far finta di rassettare un po’ e coprire appena la sua quotidianità scombinata o solo affollata. Lì lei è perfettamente a suo agio. E quello spazio dove i numeri di telefono sono scarabocchiati sulle pareti, e la cenere dell’eterna sigaretta può anche imbrattare le mattonelle del pavimento, diventa visivamente il campo dove si ribaltano le nozioni di ordine e disordine, normalità e follia, perché l’ordine può essere tanto maniacale quanto il disordine. E anche un manifesto molto tenero del suo anticonformismo: lei non ha mai voluto essere né saputo essere “il focolaio”. Durante la guerra, la casa familiare di Alda andò distrutta, nel giro di niente. E questa sensazione di non possedere una casa in qualche modo l’accompagna per tutta la vita. In un certo senso, la sua casa è stata il manicomio in cui per motivi anche oscuri lei è tornata tante volte anche per autorecludersi in momenti di depressione, fragilità e anche povertà. Ed ora è come se abitasse questo suo spazio sui Navigli, cosciente della sua precarietà, della sua semplice e banale funzionalità. Non possedere nient’altro se non la poesia, e attraverso la poesia qualcosa di se stessa. E anche le poesie e gli aforismi volevano fuggire a qualsiasi misura temporale. Li dettava per telefono agli amici o scriveva su bigliettini volanti, pezzi di carta riciclati e macchiati, che erano anche la sua moneta di scambio nel nostro barattare quotidiano. Eppure le due stanze sui Navigli non erano abbandonate. Quelle stanze furono profondamente abitate, come una conchiglia piena di granelli di sabbia, come la poesia.

Vecchioni allunga una linea da Saffo fino ad Alda, poeta del Novecento senza esserlo davvero. Questa “poesia femminile” racconterebbe di una donna che “vive il tormento come massacro della carne, un offuscamento del pensiero, una ferita che non si rimargina. La poesia femminile è corpo, sangue, sudore. L’addio è uno schianto, non c’è consolazione. È totale il darsi, stralunarsi, vivere l’atto d’amore come una creazione e una spudorata perdizione”. Le parole si fanno carne che si strappa la carne di dosso.

La donna ha bisogno dell’illusione, della favola, del racconto, per sopravvivere alla storia d’amore. Di delirio e di ossessione d’amore. Di intessere tele di ragno, come diceva Alda Merini. Ma anche l’uomo ha bisogno del mito e dell’illusione. Anche per lui dietro ci sono insicurezza e bisogno d’amore, e una certa vulnerabilità. Eppure il modo di raccontarla o aggirarla è così diverso. Allora bisogna andare oltre quello che lui è per lei, e lei per lui, oltre ai nostri modi complicati di innamorarci, più o meno distruttivi, più o meno masochisti. Oltre, per raschiare l’unicità di ognuno di noi e capire davvero l’altro.

Dietro la poesia di Alda c’è il manicomio. Ma prima del luogo (o non-luogo), c’è un gesto di sopraffazione della società. Ci sono delle mani che la trascinano via in un momento intimo, privato, di debolezza, di crisi, magari di violenza familiare, perché lei non ce la faceva ad assumere fino in fondo la responsabilità di essere madre, perché quella vita di donna normale era stata una scelta sbagliata. Dietro c’è suo marito che acconsente a tutto ciò. Prima del manicomio, c’è l’amore strozzato per lo scrittore Giorgio Manganelli che a un certo punto si era tirato fuori da quella storia, era fuggito via. Prima, nei pezzetti di carta in cui suo padre stracciò la prima recensione. Prima, sotto il bombardamento che distrusse il loro appartamento. Prima nella compostezza di una mamma troppo bella ed algida che le negò la poesia. Prima, in uno sguardo poetico sul mondo che in qualche modo è nato con lei.

Poi, arrivano le immagini e i versi che raccontano. C’è quella luna a cui tutta la poesia ha dedicato canti, e per lei invece, è come un cono di luce insopportabile su quelle notti che non trascorrono mai nel manicomio. C’è la vergogna di essere così che la lega alle figlie, oltre l’amore. La compassione per quei corpi torturati nei manicomi. Il dolore. Ed una gioia fatta di disincanto, quello del rossetto sbavato, delle guance troppo incipriate, dei gioiellini di bijouterie, delle canzoni con gli amici e per gli amici. E di provocazione lucida, disinibita e calma. E lei è lì a guardare le stesse cose, ma da un altro lato. Come dice Vecchioni, Alda canta l’assenza del fiore nel campo. E Vecchioni sceglie Alda perché fa da contrappunto perfetto al dicibile, al linguaggio. Alda, che è fatta di parole, che sa vivere l’amore  solo nei suoi versi, è il non dicibile, il non linguaggio, l’altra verità, quella che affiora e non affiora.

Per “volare” c’è bisogno di “leggerezza”. Quella delle lezioni americane di Calvino. Togliere peso alla didattica, e togliere le ancore all’immaginazione degli studenti. Gli strumenti di Vecchioni sono la metafora, le giravolte, la divagazione per sconfinare. L’atterraggio è la “concretezza”, la lezione incompiuta di Calvino, quella che originariamente aveva intitolato “openness”, prima di cambiarne il titolo in “consistency”, quella lezione che non avrebbe mai dato. Per Vecchioni non sono i piedi per terra, ma accompagnare i suoi studenti a posizionarsi nello spazio aperto appunto, tra l’uomo e il mondo.

In Calvino spesso la fantasia contamina la realtà o si sostituisce ad essa ma sempre in modi geometrici anche quando sono labirintici. C’è sempre un filo che ti aiuta ad uscire del labirinto. Nelle sue lezioni di vita oltre che di lingua, Vecchioni invece, fa apparire Alda Merini, laddove i riferimenti di Calvino sono tutti tratti da una bibliografia rigorosamente maschile. “L’immensa scommessa della linguistica è questa, altro che giochetti da piccolo chimico: stendere una mappa mondiale dei sentimenti e delle ragioni, per andarci dentro, capirli, assimilarli, paragonarli ai nostri e finalmente intendersi e accettarsi e, seppure con una probabilità su un miliardo, amarsi, che cavolo”.

E Alda Merini dà la misura di tutto questo. Di ciò che è inguaribile e che non può restare nello spazio di un aula, nella linearità di una costruzione razionale, ma ha bisogno di aria e di un professore che nel calendario scolastico proponga “giornate di follia”, in cui continuare a scrivere il mito, a riscriverlo, a navigarci attorno. A volare fuori della sua gabbia. Ulisse non ha mai preso il mare, racconta Vecchioni. È rimasto nella sua isola, accanto a sua moglie e suo figlio. Il suo viaggio è stato solo il sogno di un uomo in preda alle febbri per una ferita infetta. Perché in fondo ogni viaggio è il posto dell’anima. Può veleggiare verso il passato o prendere l’orizzonte del futuro. Ma tra le cose perdute e quelle desiderate, ce lo portiamo sempre qui, nel presente, un presente continuo, in quella tavoletta dura dov’è disegnato il cavallo di Troia, che Ulisse protetto nella sua isola, tocca sotto la tunica.

E con Alda, arrivano de André, e García Lorca e la Poesia, che scava nell’amore e nel dolore, che non si stanca di cercare, di dire e ridire. Quella intraducibile. Davanti al professore ci sono loro, le ragazze e i ragazzi, che sentono e capiscono. Seguendo quei professori come Vecchioni che non hanno paura di non tenere il ritmo.

(Dedico questo testo a uno così, grazie ancora Professore Siniscalchi).

Silvia Acierno

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