L’altro giorno, guardando una puntata di una serie che seguo (The Good Doctor) mi è tornato in mente un passatempo che avevo da bambina: sfogliare il vocabolario, memorizzare parole e arrivare fino alla parte finale, quella delle bandiere o dei rettili. Dipende dal vocabolario.

E lì ho iniziato questo strano nuovo gioco.

Perché alla fine si invecchia ma non si cresce mai.

Quanti libri hanno lo stesso titolo o simile?

E perché?

A titolo uguale corrisponde anche un uguale contenuto oppure le parole sono come quei vestiti che sulle modelle di Postalmarket sono perfetti e invece poi quando ti arrivano e li indossi a casa su di te sono stretti, lunghi e sbiaditi?

E soprattutto Postalmarket esiste ancora?

Mangia Prega Ama

È il 2011 e la Rizzoli sigla un caso editoriale, scritto da Elizabeth Gilbert, diventato anche un film con il volto di Julia Roberts. Liz è bella, bionda, solare; ha una grande casa a New York, un matrimonio perfetto, un lavoro invidiabile. Eppure, in una notte autunnale, si ritrova in lacrime sul pavimento del bagno, con l’unico desiderio di essere mille miglia lontana da lì. Quella notte, Liz capisce di non volere niente di tutto quello che ha, e fa qualcosa di cui non si sarebbe creduta capace: si mette a pregare.

Due anni più tardi la Newton Compton pubblica Balla, sogna, amadi Sophie Flack, che insomma, signori, converrete con me che, quanto meno in superficie, la somiglianza è innegabile.

Qui non si mangia, non prega, non si hanno crisi di identità.

Qui si balla.

Sul palco la vita Hannah è un sogno. Dietro le quinte, meno. Lei ha solo diciannove anni ed è già una delle ballerine più talentuose del Manhattan Ballet. È perfetta, la sua tecnica è impeccabile e quando danza sembra che con il corpo dipinga l’aria. Ha dedicato la sua esistenza al ballo, e non se ne è mai pentita perché il suo più grande sogno è diventare prima ballerina. Per realizzarlo ha sacrificato tutto: famiglia, amici, tempo libero. Ma quando incontra Jacob, un musicista affascinante e sicuro di sé, tutto il suo mondo crolla.

Adriatico di Alessandro Leogrande

Non riesco neppure a crederci che, mentre ne parlo, Alessandro non ci sia più.

Feltrinelli, 2011.

Cosa sappiamo dei paesi che costituiscono la nostra frontiera orientale? Cosa pensiamo di quelle nazioni con cui condividiamo  scambi, commerci, guerre, esodi, trasformazioni epocali? Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Albania, paesi con cui abbiamo relazioni strettissime e secolari, che affondano nel passato e che sono parte del nostro presente eppure che in fondo conosciamo (e spesso rispettiamo) così poco. Alessandro Leogrande ci accompagna a visitare le terre bagnate dal mar Adriatico, svelandoci quanto di noi c’è in esse, quanto di loro davvero conosciamo.

Alessandro ha questa dote di parole cariche, piene, ricche che ci ha lasciato, forse immeritatamente, e sicuramente troppo presto, come eredità.

Dodici anni prima, con Giunti Editore, usciva Adriatico di Raffaele Nigro, affascinante affresco di un pezzo di storia del nostro Meridione.

È un racconto che parte dalla Basilicata e che si conclude ad Atene. Nigro ci racconta mezzo secolo di storia. Passato e presente si alternano in un intreccio realistico-visionario, tra miti ancestrali e utopie politiche. Ed è nel cuore di una regione ”bianca”, con i suoi riti propiziatori fra religione e politica, che i protagonisti vivono l’avventura del cambiamento della società meridionale, dall’occupazione delle terre all’industrializzazione mancata, alla contestazione giovanile, fino alla disillusione del presente. Finalista al Premio Strega 1998.

Diversi gli sviluppi, seppur accomunati dai medesimi luoghi fisici. Diversi gli approcci: uno intimo, raccolto, riflessivo, l’altro storico, analitico.

Entrambi mi lasciano la certezza, ora, nel 2019, che siamo un popolo senza memoria.

La vita felice (De vita beata), Seneca

«Vivere, Gallio frater, omnes beate volunt, sed ad pervidendum quid sit quod beatam vitam efficiat caligant»

Ne il De vita beata  da un lato Seneca argomenta i temi del vero stoicismo «non dar peso alla fortuna, né quando s’avvicina né quando s’allontana», «non aver desideri né timori», «felice è chi vive contento del proprio stato», «la virtù proceda per prima e porti le insegne; avremo ugualmente il piacere, ma ne saremo padroni e regolatori». Nella seconda parte del dialogo, l’autodifesa di Seneca si fa scoperta, riportando egli stesso le accuse che gli erano mosse, di cui le principali erano le ricchezze ammassate durante l’amicizia con Nerone e l’indulgenza al lusso contrastante con i precetti predicati.

Decisamente dopo molta acqua sotto i ponti (molta, molta, molta, infinita, Elena cara) troviamo La vita felice, in casa Einaudi, un libro che ha la struttura di un thriller in cui il colpevole si intuisce fin dalle prime righe. Il resto del tempo il lettore lo passa ad aspettare la colpa, a desiderare la condanna e a lenire l’angoscia. Ma il male avvinghia l’umida provincia con una fitta trama di verità labili e grigie come i suoi silenzi gonfi di pioggia. «Avevo sedici anni» , dice la voce narrante ripercorrendo la sua iniziazione all’età adulta, «quell’estate in cui mio padre portò nei boschi una ragazza. Quell’estate in cui ciascuno di noi tenne per sé i suoi segreti».

L’idiota di Dostoevskij

Con timore e reverenza mi avvicino al mio amico Fëdor, che tante, troppe volte mi ha fatto capire quanto la maggior parte delle cose che ho letto fossero solo delle carote di contorno  e che lui, solo lui, era l’arrosto.

Anche se a me carote piacciono un sacco.

«Verso le nove del mattino d’una giornata di sgelo, sul finir di novembre, il treno della ferrovia Pietroburgo-Varsavia si avvicinava a tutto vapore a Pietroburgo. Il tempo era così umido e nebbioso, che a stento si era fatto giorno; difficile era distinguere qualche cosa dai finestrini della carrozza a dieci passi di distanza, a destra come a sinistra della linea. Dei viaggiatori, alcuni tornavan dall’estero; ma soprattutto erano affollati gli scompartimenti di terza classe, e tutti di gente minuta e d’affari che non veniva da molto lontano. Tutti, come succede, erano stanchi, infreddoliti, con gli occhi assonnati e il viso giallognolo, intonato al color della nebbia».

Due personaggi siedono uno di fronte all’altro. Uno è biondo, di bell’aspetto, dallo sguardo puro e sofferente, discendente da una nobile famiglia decaduta. L’altro è bruno, dallo sguardo malvagio. Preso dalla voglia di intraprendere una conversazione qualsiasi, il bruno chiede al biondo, notando che trema, se ha freddo.  Il biondo risponde di sì, che non ricordava che a Pietroburgo facesse così freddo, poiché per molti anni era stato in Svizzera per farsi curare da una malattia convulsiva che lo aveva reso “quasi un idiota”.

È vestito, infatti, in modo molto leggero e i suoi bagagli consistevano in un semplice fagotto con pochi vestiti. Questo personaggio risulta essere il principe Myskin, ultimo discendente di questa famiglia aristocratica.

Il bruno è Rogozin, il quale prenderà a sua volta a parlare di sé al principe e a narrare la propria storia.

« Che razza di idiota sono se so che mi si considera un idiota

L’idiota in versione pink che ho comprato quasi con stizza e che poi mi ha fatta ricredere su tutta la linea, ha in sé qualcosa di stupefacente.

Elif Batuman, l’autrice, fa parte di quel nutrito gruppo di scrittrici newyorkesi che seguo su Twitter.

È figlia di immigrati, ha studiato linguistica e letteratura russa ad Harvard e Stanford.

 La letteratura russa in realtà è per lei una vera fissazione.

I titoli dei libri di Elif Batuman sono presi in prestito da quelli dei suoi amati scrittori russi anche se le storie seguono ovviamente e fortunatamente altre strade.

Questo è un omaggio reverente e composto.

Il contenuto è brillante e originale.

Nel 1995, mentre il mondo impara a usare le email e a comunicare via internet, Selim è una matricola all’università di Harvard. Per lei comunicare, con o senza internet, è sempre stato un problema; il suo rapporto con il reale passa soltanto attraverso i libri che considera depositari di un significato assoluto e chiaro. Il suo sguardo sulle cose è tanto acuto e brillante quanto ingenuo e innocente, come può esserlo solo quello di chi ancora non ha fatto sesso e nemmeno bevuto un bicchiere di vino. E così tutto della vita universitaria le pare assurdo. Il cavo ethernet della connessione di dipartimento serve per impiccarsi? Se si compra tequila per la festa, come mai anche il sale? E perché nessuno si rende conto di desiderare solo ciò che non può avere? Quando però incontra Ivan tutto cambia.

E brava Elif.

Concludo questa carrellata con L’amore in un giorno di pioggia.

Da un lato abbiamo il romanzo scritto da Sarah Butler edito da Garzanti  e tradotto da E. Budetta , dall’altro Sperling & Kupfer,  scritto da Gwen Cooper e tradotto da G. Balducci.

In questo caso mentre distribuivano la fantasia per le immagini i signori-copertina erano intenti a far altro.

La prima è la storia di un padre e di una figlia che non si conoscono, ma che si sentono entrambi pezzi mancanti di un puzzle che non sanno neppure che esista, la seconda parla di Prudence, una gattina, della sua padrona, del suo esser madre di una figlia che non conosce e il passato che ritorna e insegna e vissero tutti felici e contenti.

Mi sono piaciuti? No.

A voi importa? Non so.

So che, ancora una volta, le parole hanno un peso e una capienza diversa.

Hanno una consistenza mutevole, come l’acqua, che può essere mare ma può essere anche bottiglia.

E, ancora una volta, so che quel bizzarro gioco, alla fine, non era poi così male.

Natalia Ceravolo