È sensazione diffusa di molti che la lingua italiana si stia impoverendo e secondo i più catastrofisti stia addirittura scomparendo.

In tanti avvertono questa perdita, provando nostalgia per la lingua bella imparata a scuola e dai libri letti, deprecando i troppi anglismi, la scomparsa del congiuntivo e il diffuso disprezzo per l’ortografia e la lingua corretta. Mezzi di comunicazione, scuola, scrittori ed editori, vengono additati come responsabili per aver scelto la semplificazione linguistica e l’impoverimento lessicale; l’università, colpevole di preferire l’inglese come lingua della scienza e del sapere.

Questa diffusa percezione registra senza dubbio un malessere della nostra lingua e un cambiamento che non ha ancora preso una direzione precisa, tuttavia sono necessarie delle puntualizzazioni.

1. Quando Dante sognò nel De vulgari eloquentia una lingua letteraria comune a tutta la penisola, la immaginò illustre, perché doveva dare lustro a chi la usava. La base di partenza era il volgare, inteso come lingua imparata dalle balie, arricchita e temprata dallo stile sommo dell’arte poetica. Il volgare illustre doveva essere lingua dell’armi, dell’amore e della rettitudine, adatta agli illustri doctores provvisti di scientia e ingenium, che agivano nella realtà del suo tempo; opposta al volgare illustre, la grammatica, lingua dei dotti e dei chierici cioè il latino, fisso e sempre uguale, morto.

Le intuizioni di Dante sembrano indicare che la lingua bella sia frutto di una miscela tra lingua parlata e lingua dell’arte. Tale miscela non può essere fermata, è in continuo sviluppo e mutamento, grazie al contributo creativo di chi la parla e chi la scrive.

La moderna linguistica ha inoltre dimostrato ampiamente come la lingua, per produrre una comunicazione efficace, si articoli in livelli e si pieghi nei vari registri.

Non esiste quindi la lingua italiana in assoluto, tanto meno l’italiano puro. Esiste l’italiano, declinato in tutti i settori e gli ambiti in cui si sporca e si rimescola. La lingua italiana resta ricca, viva e meticcia. A quale lingua dunque ci riferiamo, quando temiamo per la sua scomparsa?

2. Se ci riferiamo alla lingua dei libri di scuola, dei mezzi di comunicazione e del web, è vero: l’italiano è impoverito, standardizzato, semplificato. Maggiormente comprensibile ai più. Comprensibile a tutti coloro che ai bei tempi andati erano esclusi dall’apprendimento, dalla cultura e dall’informazione scritta. Vale ricordare che l’italiano, inteso come lingua nazionale, cioè parlata e scritta dagli italiani, è nata molto dopo l’unificazione con l’istituzione delle scuole pubbliche finanziate dallo stato (riforma Daneo-Credaro del 1911) che hanno permesso l’alfabetizzazione primaria di un certo numero di italiani di ogni regione e classe sociale; dalle lettere dei soldati dal fronte della prima guerra è evidente lo sforzo di voler comunicare nella lingua nazionale, irrigidita dalla grammatica e dalle frasi di cortesia, ma ancora declinata nei tanti dialetti. La riforma Gentile (1923), elitaria e classista, portò l’obbligo scolastico a 14 anni e la riforma dell’unificazione della scuola media (legge n. 1859) del 1962 ampliò i destinatari dell’apprendimento dell’Italiano, eliminando la scuola di avviamento professionale. La maggiore, più capillare alfabetizzazione degli italiani e l’aumento della dimestichezza con la lingua nazionale è partita quindi soltanto 56 anni fa. Insomma l’italiano comune è appena nato. Non tiriamogli già i piedi.

3. Se siamo preoccupati per la lingua letteraria, è bene considerare che molti scrittori oggi, scrivono romanzi di massa o per la massa, non per i venticinque lettori di falsa modestia manzoniana. Gli editori pubblicano per vendere, sono industriali capitalisti, non una ONLUS. Questi narratori vengono fuori dalla massa degli italiani che legge poco e se legge, non si nutre certo della illustre lingua degli avi, ma dei best seller anglosassoni, in genere global novel transnazionali, traducibili in tutte le lingue del mondo in un buon libello medio standard. Siamo del resto nell’epoca della globalizzazione, non solo economica, ma anche culturale. L’italiano da loro usato pertanto non è letterario, non è illustre e non dà lustro né a loro né alla lingua. Fatte le dovute eccezioni, naturalmente. Si può scommettere che ogni editore sia felice quando gli capiti tra le mani un manoscritto letterario, in cui la lingua italiana sia creata con buona miscela e diventi modello (perché l’arte è evocativa), ma accade di rado, come è giusto. Non si può essere tutti Dante.

Chi scrive e chi parla in pubblico ha almeno la responsabilità dell’italiano corretto. Dobbiamo però essere tutti consapevoli che anche le norme linguistiche cambiano: alcuni elementi di una lingua diventano inutili zavorre e vanno lasciati andare, per es. dovremo rassegnarci alla scomparsa del pronome esso/essi; dovremmo invece tenerci stretto il congiuntivo, modo del pensiero obliquo, del desiderio e dell’immaginazione. Perderlo, significa perdere metà del cervello.

4. La lingua letteraria italiana ha ottocento anni. Per motivi anagrafici non è identificabile con l’italiano. Resta lingua letteraria non fruibile né godibile dalle masse. La miscela dantesca, creatrice della lingua, è stata per secoli appannaggio di pochi; è mancata in Italia quella che il vecchio Graziadio Isaia Ascoli definì «la densità della cultura»; è da pochissimo e a fatica che la condivisone culturale si fa strada tra gli italiani; a un paese come l’Italia è stato imposto il fiorentino delle classi colte «come una manica da infilare» (sempre il Graziadio), ma a questo non ha fatto seguito una piena e profonda condivisione culturale. La questione non è l’impoverimento della lingua, ma la povertà di cultura.

Chi teme per la scomparsa dell’italiano aguzzi l’orecchio ai venti minacciosi delle tante politiche dell’austerità, della semplificazione e mercificazione della scuola, della cultura, dell’informazione; all’abbassamento delle competenze, al disprezzo degli esperti veri, inascoltati; ai nemici della conoscenza. Tali nemici sono sempre individuabili: dicono che con la cultura non si mangia, che la scuola e l’università accrescono il debito, che formare esperti (di qualunque tipo, giornalisti, insegnanti, scienziati, artigiani) non serva, tanto poi se la cavano tutti; che fare cultura in tv abbassa lo share, che usare il congiuntivo non vende.

Le politiche che negli anni hanno sottratto risorse e vita alla cultura italiana minacciano l’italiano, perché abbassano la densità culturale, impediscono che la lingua alta e quella bassa si mescolino per creare l’italiano nuovo e garantire «la sicurezza della lingua» (Ascoli Isaia Graziadio, sempre lui).

5. L’eccessivo uso degli anglismi infine è una diretta conseguenza di queste scelte politiche, giacché non si è mai visto un esperto vero nel suo campo, che padroneggi la lingua inglese, farne sfoggio e usarla al posto dell’italiano. I finti esperti, invece, scarsi conoscitori dell’inglese, ne hanno imparato a memoria qualche frammento settoriale e ne abusano, per vanto o incompetenza, inondano pagine, schermi e università, accrescendo le ansie sulla salute dell’italiano.

Nessuna minaccia invece bisogna temere dai gerghi o dai tecnicismi, nati nel mondo anglosassone e che mai potremmo sostituire con termini italiani, sia nella vita quotidiana (nessuno chiamerebbe topo, il mouse del computer) sia nei diversi settori del sapere. Suonerebbe strano sostituire marketing con vendistica o mercatistica, sarebbe come se i popoli del resto del mondo decidessero di sostituire le didascalie musicali Piano, Pianissimo o Allegretto con qualche loro termine nazionale. Non si potrebbe sentire.

La lingua italiana è come un bambino nato con fecondazione artificiale da genitori anziani, ha vita difficile, non sempre tiene il passo in un mondo di veloci mutamenti, ma cambiando crescerà, come è naturale che sia.

Maria Antonietta Nigro

Per approfondire

Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di M.Tavoni, Mondadori 2017
Ascoli, Graziadio Isaia (2008), Scritti sulla questione della lingua, a cura di C. Grassi, con un saggio di G. Lucchini, Einaudi 2008
Tullio de Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza 2011 (per gli appassionati il consiglio è quello di leggere il più possibile gli scritti di De Mauro che portano lontano, nel futuro, perché lui era capace di sognare)
Massimo Arcangeli, Cercasi Dante disperatamente. L’italiano alla deriva, Carocci 2012
Gabriele Valle, Vocabolario di Itanglish: http://www.italianourgente.it/