Parlare di moda è sempre controverso: osannata, emulata, odiata, adorata, giudicata, elevata, sminuita a seconda dell’epoca e del momento, ma sempre e comunque chiacchierata.

Ancora più controverso è parlare di moda se lo si fa in un ambiente, quello editoriale, dove la moda è percepita quasi sempre come antitesi dell’intelletto, un vacuo esercizio di vanità attinente alla bassa sfera della lusinga invece che alle vette elevate dell’intelligenza.

Questo universo editoriale che produce bellezza attraverso le parole, le grafiche di copertina, e diversi capolavori di illustrazione, fotografia e design, pure sembra individualmente schernirsi davanti al bello, come se abiti accostati con buon gusto, rossetti accesi o – per carità – un paio di tacchi alti potessero inzozzare la credibilità del puro pensiero astratto con il fango profano dell’estetica, tenuto debitamente a distanza attraverso i cliché, lisi come alcuni abiti, dei completi di lino stazzonati e del velluto a coste.

Non è quindi un caso, forse, che di moda l’industria editoriale abbia fatto parlare sempre le donne: ritenute frivole, adatte a contesti minori, capaci di interloquire solo con le loro simili che sono, ça va sans dire, meno degne di interessarsi alla politica, alla società e alla vera letteratura. L’intelligenza però sta spesso nel fare del poco che ci hanno dato una risorsa, e così le scrittrici e le giornaliste che si sono occupate di moda a partire dalla seconda metà dell’800 in poi hanno preso gli articoli di costume che avevano loro affidato e ne hanno fatto piccoli capolavori letterari, pezzi di bravura che le hanno consacrate tra le migliori penne della loro epoca.

Lo mostra molto bene un libro uscito in questi giorni per Rina edizioni, Crear sé stessa, un gioiello editoriale per collezionisti e amanti del bello, frutto di cinque anni di ricerca d’archivio da parte dell’editrice che lo ha curato e ne ha scritto la postfazione, Michela Dentamaro, e arricchito da illustrazioni e cartamodelli originali oltre che dalla bella prefazione di Olga Campofreda.

È il primo di due volumi che si prefiggono l’ambizioso obiettivo di tracciare non la storia della moda, ma la carriera letteraria di scrittrici e giornaliste che proprio attraverso lo scrivere di moda sono riuscite a ritagliarsi un proprio spazio nel mondo letterario, e a far emergere la peculiarità della loro voce.

Ed ecco che sfilano sotto i nostri occhi le penne affilate e argute di Sibilla Aleramo, Matilde Serao, Rosa Genoni, Contessa Lara, Marchesa Colombi, Olga Ossani, Mara Antelling, pronte a interloquire con fare civettuolo e una strizzata d’occhio con le signore mie che leggono le loro pagine, mentre attraversano l’esposizione universale o soppesano la portata rivoluzionaria del taglio alla maschietta, consapevoli che la moda non è soltanto frivola apparenza, ma racconta la Storia e i suoi cambiamenti, le sue rivoluzioni.

Trapela dalle pagine di queste scrittrici un gusto sottile nel nascondere il cambiamento sociale dietro la frivolezza di costumi, il sorriso di sbieco di chi si finge superficiale mentre cova la rivoluzione. È evidente nel modo in cui chiosa, con ironia, Marchesa Colombi nella sua Lettera aperta alle Signore sul Corriere della sera del 1876, mentre pretende ancora qualche pagina per celiare prima di lasciare le sue lettrici alla greve serietà dei romanzi e degli articoli importanti, quelli scritti dagli uomini: Sento quassù che si brontola perché le mie ciarle prendono tutto il pianterreno e non lasciano spazio al romanzo. Hanno ragione quei signori. Il romanzo interessa le lettrici: due parole ancora e mi ritiro.

E strizza loro l’occhio: Parleremo fra noi, c’intenderemo fra noi in tutta confidenza, e gli uomini non ci avranno nulla a che vedere. Anzi, mi raccomando alla loro discrezione: perché certi interessucci da toletta, certe spese private è bene che loro non le sappiano per non guastarsi la digestione, e quel che sarebbe peggio, per non guastarla a noi.

Cosa c’è infatti di più frivolo e innocente di un abituccio, di un costume da bagno, del tono vermiglio di un rossetto fra due sbuffi di volant?

E invece c’è una potenza della leggerezza, nella moda, troppo spesso sottovalutata: basti pensare al rossetto rosso di Elizabeth Arden sulle labbra delle suffragiste, un gesto di ribellione per rivendicare una lotta e la riappropriazione del trucco come gesto di libertà, in grado da solo di uccidere lo stereotipo della donna angelo del focolare, pura, struccata e pronta per il matrimonio, la stessa a cui Virginia Woolf tira il suo calamaio in Una stanza tutta per sé.

È dalla metà dell’800 che inizia la graduale liberazione da corsetti e sottogonne pruriginose, che porterà all’uso dei pantaloni (per lungo tempo alle donne fu vietato indossarli) o, successivamente, alla carica eversiva della minigonna di Mary Quant e dell’esplosivo bikini fino ad arrivare all’ombelico scoperto di Raffaella Carrà, considerati oggi da alcuni strumento del patriarcato ma in realtà nati proprio come gesto impudico di ribellione rispetto a una visione castigata e morigerata della donna creata a uso e consumo delle insicurezze – e dei giudizi – maschili.

Ne è perfettamente consapevole Sibilla Aleramo che, mentre rivendica la gloria per il lavoro delle sarte che creano favolose architetture con i loro abiti, ne biasima la scarsa considerazione da parte del mondo intellettuale: Perché dunque tanta poca riconoscenza per coloro che ne hanno il merito? Per il fatto che è connesso l’elemento commerciale, lo so. Ma anche la letteratura e il teatro hanno dietro a sé vasti organismi finanziari, e tuttavia nessuno mi taccia di penna venduta s’io scrivo il bene che penso del libro testé uscito o della voce di una cantante, mentre guai ad esempio se qui in questo articolo elogiassi la produzione della tale o tal altra modista di grandissimo ingegno, facendone il nome a tutte lettere!

Occuparsi di moda, sebbene lo si faccia con toni non gravi, vuol dire dunque rivendicare uno spazio d’azione di tutto rispetto, sia per le donne che quella moda la creano – e danno fondo alla loro esperienza, dedizione, originalità – inserendosi nel mondo del lavoro, sia per quelle che la raccontano, perfettamente consapevoli che la scelta di un cappellino vale molto di più che l’approvazione sociale del proprio buon gusto.

Scrive Aleramo in Capelli corti tratto da Novelle novecentesche, del 1930: Un mio antico convincimento […] è che la donna, se vuole affermare la sua spiritualità […] debba non già imitare l’uomo ma, al contrario, estrarre i caratteri specifici del proprio essere, scoprirli, poiché in realtà sono stati fino a oggi a essa stessa celati; o, con una parola più semplice, crearli. La donna deve, nel campo dello spirito, “crear sé stessa”.

La moda dunque come travestimento quotidiano che esprime la semantica di un messaggio, di una rappresentazione di sé scoperta, svelata, creata ogni giorno, e che afferma con forza la presenza della donna in società non come orpello o mera riproduttrice della specie, ma come testa pensante, spirito consapevole, lavoratrice infaticabile, artista, creativa.

Proprio la dimensione lavorativa è l’elemento portante di questa trasformazione, in cui il cambio d’abito segna il passo della modernità: Matilde Serao dalle pagine del Mattino elogia la sovversiva praticità dei capelli corti o la possibilità per le donne di fare sport, che si accompagna ad abiti più pratici e confortevoli che con le trine e le stecche di balena abbandonano anche una visione della donna che sia svelta e languida, che passi la vita sdraiata sulla sua poltrona, seduta nella sua carrozza, seduta sul suo seggiolone, al teatro, che si levi poco, che passeggi solo un pochino, che conceda solo al waltzer il merito di vederla trasvolare in un salone per lasciare spazio a una donna nuova, più energica anche moralmente, che forse perde un poco in languida e inferma sensualità ma che guadagna, nell’acquisire scetticismo e capacità di ridere dell’amore e degli uomini, una maggiore felicità.

La moda liberata va dunque a braccetto con la donna liberata, che non consente più il controllo del proprio corpo – e con esso la sua sottomissione – a un certo tipo di organizzazione sociale patriarcale: una donna che, come afferma Olga Ossani, ha bisogno di abiti da lavoro, più scuri e meno delicati, ma che non la rendano un pagliaccio o non la costringano a rinunciare alla grazia dell’eleganza; donne nuove, il cui lavoro – come scrive Rosa Genoni – va riconosciuto non come mera esecuzione ma come atto creativo, propositivo, che rende le donne portatrici di una carica culturale e innovativa che rivendica il proprio riconoscimento nella società e nel mondo del lavoro.

Quel che in Crear sé stessa appare evidente è tutta la costruzione di un mondo rinnovato che inizia a vedere le donne protagoniste, sia nel creare una moda finalmente adatta alle esigenze delle donne stesse e della loro vita quotidiana, che sia fatta di lavoro o di balli di gala, sia nel comunicare quella rivoluzione dalle pagine dei quotidiani e delle riviste, raccontando con lingue affilate e sagaci i cambiamenti della modernità ma, soprattutto, facendolo meglio degli uomini e in barba alla loro risicata concessione degli spazi di espressione.

Sono sarte, stiliste, militanti socialiste, giornaliste, sportive, scrittrici. Si fingono innocue, queste donne, e invece sono ribelli, si rappresentano frivole e sono profonde, si tagliano i capelli anche se i loro mariti disapprovano, inforcano biciclette, prendono ago e filo per reinventare il loro stare al mondo e la penna per narrare una nuova maieutica di sé, utilizzando il sorriso e l’ironia come la più affilata delle forbici e finendo per mostrare al mondo quanto sono brave, al punto che anche persino gli uomini e i colleghi sono costretti a riconoscerlo, come fa Bobi Blazen nell’esergo, perfetto, di questo libro:

«Hai mai letto i racconti dei settimanali femminili, quelli scritti da quelle donne là? Loro sì che sanno raccontare, accidenti se sanno raccontare».

Non resta che sfogliare queste pagine, accennare un sorriso e dargli ragione.

Giorgia Antonelli