Impariamo da piccoli ad essere ciò che diventeremo

Quel luogo a me proibito Elisa Ruotolo

La nonna materna viveva assieme a noi, nella nostra casa, che prima di essere nostra era stata sua. Era quindi molto vicina a me ed io l’ho sentita sempre ancora più vicina di questa vicinanza. La notte in cui è morta o forse quella del funerale ho visto una fiammella. Credo di essermi seduta nel letto, che era stato anche quello di mia madre prima di essere mio  e prima di lei di una zia che non aveva avuto figli. Ho fissato quella fiammella per un po’, il tempo che si avvicinasse e poi sparisse. Non ho mai creduto che fosse solo un’allucinazione. Quando penso a lei, a mia nonna, è come se stesse ancora là ed io potessi presentarle tutto quello che è venuto dopo. Quando penso a lei è come se stia ancora in quella casa che era nostra, che ora non è più nostra. La catena del prima si è spezzata. Così doveva essere. Questa confusione brevissima, il tempo quasi inesistente di accorgermi della sua assurdità, mi riscalda. In quella fenditura c’è qualcosa che mi rende felice.

Il romanzo di Benedetta Gargano, L’invenzione della felicità mi ha riportato dritto lì, da mia nonna. La sua, quasi centenaria, arriva a casa della narratrice a riempire uno spazio, quello che un figlio che non è venuto forse avrebbe diversamente colmato. Perché spesso le persone sono chiamate ad occupare un posto in uno spazio che a volte è così stretto da dare l’impressione che non ci sia nemmeno un buco, appena te ne accorgi che manca qualcosa, forse non manca niente a quella vita di coppia così ben collaudata, quel buco è quasi inesistente eppure apre la voragine del vuoto, di ciò che non esiste, o pensavamo che non esistesse. Altre volte il nostro spazio è talmente ampio e confortevole da dare l’impressione che ci sia posto per tutti, figli, amici dei figli, parenti, ospiti ed ospiti degli ospiti. Uno spazio così largo che ci casca comunque tutto dentro fino a divenire sgombero, perché in realtà non cercavamo proprio nessuno. Quel posto da occupare non si trova mai fuori ma sempre dentro di noi, nelle grandi emozioni, addossate in crepe fitte, o nei sentimenti formali, che stagnano in laghi disabitati.

Di posto nell’appartamento della narratrice, una sceneggiatrice con una ironia disarmante, ce n’è poco. Lei e il suo compagno hanno una stanza da letto, un divano, un televisore, una cucina che è la zona più ampia della casa, perché lo spazio che Benedetta attribuisce al cibo e alla convivialità, fuori e dentro di sé, ha una taglia generosa. Poi c’è un vano, in cui è stato ricavato il suo studio, che sarà occupato, dopo una risistemazione minima ed acrobatica, dalla nonna. Eppure di spazio ce n’è tanto. Tanto nell’animo e nell’immaginazione di Benedetta.

Cos’è la felicità? Una lezione da imparare, una dote da possedere, o qualcosa che sta lì, un corpo con la sua ombra, un bicchiere riempito a metà, un avanzo che dobbiamo solo essere capaci di vedere, un esercizio di visione? Cancellare l’altra metà quella che ti dice che le cose belle durano poco. Allora la felicità diventa tutta una questione di dosaggi o di estetica, da un prodotto da consumare voracemente fino a una vicenda da contemplare, un’esperienza mistica di “scambi muti”. Tutto, niente o quelle poche cose, i piccoli miracoli della quotidianità? Un attimo da trattenere o la capacità piuttosto di lasciarlo andare? E se cominciassimo invece dall’infelicità? Provo a pensare che l’infelicità abbia un peso diverso, meno relativo, più concreto un nocciolo conficcato in gola a lungo o per sempre. La felicità forse è tutto quello che sta attorno a quel nocciolo, una nebulosa sfocata piena di possibilità negoziabili e distorsioni. Il sentimento che lega quello che è stato prima alla vita che arriva poi.

Per Benedetta quella doglia che sale e scende sono cinque, sei, quante, troppe gravidanze interrotte. Attorno si muove la felicità che sembra essere per lei un atto di immaginazione. Sicuramente un gesto di altruismo. Lei vuole che la nonna sia felice. Allora le compra vestiti, gli regala pranzi a sorpresa, canzoni e canzonette, la lirica, i film e il tifo alle partite di calcio del Napoli. Soprattutto non vuole che finisca in una residenza per anziani. No. La felicità è tutto quello che emana dalla nonna, un segreto che questa signora sembra possedere: un ostinato esercizio di volontà. E poi qualcosa stretto caro dentro la narratrice: l’idea di felicità che si è costruita da piccola con “il sapore delle marmellate fatte in casa, il suono ritmato dei tasti di una macchina per scrivere, e l’odore di resina dell’albero di Natale”. Ma con l’arrivo della nonna, la felicità va dissolvendosi e acquistando la consistenza vaporosa di in un momento passeggero prima che tutto cambi, che poi vuol dire accompagnare il cambiamento senza irrigidirlo in quegli insopportabili aut-aut, o me o lei. Una specie di morbidezza, che accompagna tutta la narrazione.

Il rapporto con la nonna si costruisce attorno alla conversazione, ai racconti, che lo saldano e scandiscono il romanzo. Sono quei racconti che porto anch’io con me. Fino all’ultimo, l’ultima volta che mi sono distesa sul letto accanto a lei prima della nostra ultima buonanotte. Quei racconti con la bigotteria che giustifichiamo e perdoniamo ma che non avremmo mai perdonato a nostra madre. Quegli splendidi consigli maschilisti, “ricordati che gli uomini sono come cameriere: cambi, e poi devi imparare i difetti di un’altra”, così dice la nonna di questo romanzo, che se li avesse snocciolati tua madre ti avrebbero fatta infuriare ma che detti da lei ti divertono, ti calmano, non puoi che assecondare o fare uno sforzo per accontentarla. Quelli che sono accompagnati da gesti che ripeterai senza accorgertene, vecchie usanze, come nascondere un fazzoletto di cotone nella manica di una blusa, come faceva la mia, o conficcare piccoli niente tra il bracciolo e il cuscino della poltrona come fa la nonna di Benedetta. Quelli che portano negli occhi un’ingenuità disarmante. E tra le labbra delle espressioni che ritornano sulle nostre: il boccone della creanza, sono una mappina (uno straccio), cuore a cuore, in mezzo alla piazzetta ci sta una fontanella dove vanno a bere cinque pecorelle…

 Ascoltare i racconti della nonna vuol dire camminare indietro, rimpicciolirsi. Tornare lì dove siamo stati felici, perché eravamo semplicemente inconsapevoli e non ci accorgevamo che i giorni scorrevano uguali.

Il racconto, le conversazioni con la nonna passano soprattutto per la cucina. Non le formule dei ricettari che ci inondano oramai ma a cui mancherà sempre qualcosa. Ma quella che hai imparato da ragazzina, quando osservavi la nonna organizzare quello spazio della ripetizione con efficienza, una punta di superbia, occultando e svelando i segreti che confidava solo a te per la riuscita di una salsa o di una impanatura. Le ragioni del perché un piatto si cucinava in un modo piuttosto che in un altro non avevano a che fare solo con dosaggi e sapori ma con le emozioni, i ricordi, le invidie anche le meschinerie e i pettegolezzi. Era questo che mi teneva sospesa, sulle spalle della nonna, da quello sgabello che poi piano piano non servì più. Continuavo ad ascoltare un racconto segreto per capire che posto occupavo io in quella storia. Ed è così per Benedetta, che guardava la nonna affrontare i fornelli “con il piglio di chi sa che va fatto, e va fatto bene, con amore, ma prima si finisce meglio è”.

Di mezzo ci sono i Natali con quello che portano e tolgono, la fine dell’epoca in cui ci riunivamo tutti a casa dei nonni e l’inizio di peregrinazioni sempre più stanche e insulse, servizi di piatti che prendono polvere nelle credenze o si smembrano, le fotografie stampate su cartoncini, che sono in fondo altre parole, aneddoti, altri racconti tramandati fino a lei. Le parole e i racconti che sono come stipati nei cassetti di mobili appartenuti alla nonna, alle zie, consolle, secrétaire, calatine, ribaltine, chiffonier… Spesso di notte per prendere sonno aprivo anche io le ante a specchio dell’armadio di mia nonna, tutti i cassetti del mobile secrétaire, le cappelliere, le scatole con i guanti, le piume e quei favolosi uccelli di pezza che la nonna prima aveva spillato ai cappelli. Aprivo proprio tutto e in quell’odore ordinato di naftalina toccavo, riordinavo, richiudevo.

La catena del prima si è spezzata ma l’autrice cerca di ricomporla, ostinatamente, perché la nonna è ancora là e il Natale può essere ancora indimenticabile.

Perché? Cosa c’è in quel legame che Benedetta ha deciso di accudire fino alla fine. C’è tutto quello che l’ironia, il sarcasmo e una narrazione gioiosa vogliono nascondere. C’è l’opulenza fragile della narratrice. C’è Benedetta che dopo diverse pagine ci dice chi è davvero che vuol dire anche com’è : “una sceneggiatrice attempata, grande obesa, diabetica, con la pressione nei limiti ma tendente all’alto, le ginocchia che scricchiolano più di un vecchio mobile divorato dai tarli, il setto nasale deviato, la miopia, (…)”. Grassa e ipocondriaca e tiriamo una linea netta quella che sanno tracciare solo le persone dotate di grande autoironia. Un incontro altrove in un’altra città, che non è proprio un tradimento, ma un’emozione a cui meglio non dare spazio ma che finisce per rivendicare comunque il suo spazio. I sogni addomesticati. E poi c’è all’improvviso la coppia genitoriale, tristissima: come se non ci sia niente sotto queste due persone che sono solo vecchiaia, decrepitudine, decrepiti quanto non lo è la nonna molto più anziana di loro, e cinismo. In un inciso passeggero la fame della protagonista è collocata nel suo posto, come il rovescio di un atteggiamento della madre o invece proprio l’appagamento di un suo desiderio. Come nel romanzo di Elisa Ruotolo, Quel luogo a me proibito, in cui la voracità della nonna che rubava alla vita tutto quello che desiderava, la moralità della madre, onesta fino alla crudeltà, e la vergogna avara fino alla voluttà della narratrice sono intrecciate a un filo di dritti e rovesci, di pieni e di vuoti, inibizioni e immedesimazioni. Decenza e indecenza.

La nonna riesce a calmare, ad alleggerire tutto questo peso “meno male che c’era lei”. Ti sta no zucchero. Stai tranquilla, sarà un successone. E la tensione e l’ansia si spezzano. E Benedetta riacquista terreno. Ritorna a scavalcare lo scoraggiamento. Dimagrisce o semplicemente “conclude felicemente il centesimo giorno di dieta”. La nonna continua ad accompagnarla. Perché in fondo una nonna, per chi ha la fortuna di averne una, è quella persona che ti accompagna per mano nel passaggio dall’infanzia alla fanciullezza, dalla favola alla realtà, al ritmo giusto, quello sintetico e sbrigativo della nonna di Benedetta. “Adesso che a Babbo Natale non ci credi più, tanto vale che mi dai una mano”, le dice indaffarata un giorno lontano. Ma è anche una proiezione più semplice rispetto a quella con la madre: è la donna da cui la narratrice vuole ancora imparare le buone maniere, l’autostima, l’arte di vivere. Assieme ringiovaniscono, “anche io ero diventata un’altra”. Un’altra Benedetta, quella che se continua a dimagrire potrebbe anche infilarsi nel cappottino grigio della nonna, quella che cresce assottigliandosi. Nello spazio esiguo di uno scambio, nell’attimo breve della felicità.

Poi però arriva l’altra metà, l’ombra, o addirittura il buio, quel “niente dura”. Lì ritroviamo Benedetta, su quel rigo su cui sapeva che sarebbe arrivata, su cui arriviamo tutti. Con i buoni propositi e le lezioni a cui forse l’io narrante non terrà fede. Non lo sappiamo e forse non importa. Ma ritroviamo anche la scrittrice che attraverso la scelta della narrazione cerca di non farsi scivolare dalle mani il filo della felicità, di quell’unione che la rende felice. La felicità allora, dopo, quando arriva l’ora di smaltire quello che è accaduto e tornare a muoversi, è il ricordo, che è anche una forma di smascheramento, e il racconto a contrastare il movimento di perdita, di mancanza. “Tutto sarebbe restato così fin quando io fossi stata in grado di ricordarlo, che non avrei mai perduto nulla, neanche lei”.

Silvia Acierno

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