Amsterdam, al calar del sole, muta pelle: i colori pastello accesi delle case impilate diventano di un grigio indistinto, le miriadi di tulipani che di giorno invadono le strade dei mercati, come edere rampicanti, diventano figure filiformi dietro una vetrina; figure asfissiate a cui è stato tolto il movimento.
Van Gogh, in questo gioco di penombre, avrebbe forse cercato di dipingere l’assenza, quell’indistinto che, come un significante vuoto, si appropria di un senso solo in relazione alle storie di ciascun passante; avrebbe forse cercato di guardare il sole attraverso un negativo per cogliere l’essenza, per non lasciarsi accecare.
Continuo a camminare per la città dei canali e penso a quanto sia difficile scendere in profondità, spogliarsi di tutto il pleonastico: avverto intorno a me l’eco di ‘sigh-tempests’ e ‘tear-floods’, ‘eye-catching phenomena’ come li definiva John Donne nella sua evocativa Valediction, effimeri fuochi fatui che ingannano l’occhio; continuo a vagare, come un detective alla ricerca di indizi, e capisco che ho l’urgente bisogno di filtrare, di ridurre all’osso, di toccare l’essenza nuda e cruda, così scarna quanto vera.
Un po’ come fanno i protagonisti del romanzo vincitore del Premio Nobel per la Letteratura 2024 L’ora di greco di Han Kang. Protagonisti liberi da ogni forma; a partire dal peso del nome. Come Shakespeare ci insegna che i nomi sono solo convenzioni sociali che celano la vera natura dell’individuo, anche la Kang, nel suo romanzo, ha deciso di liberare i suoi protagonisti, rispettivamente una sordomuta e un ipovedente, da ogni prigione linguistica per consentire al lettore di scoprire le sfumature più intime della loro essenza.
Lui, un insegnante di greco che, dopo essersi trasferito in Germania, è ritornato a Seoul, in Corea del Sud, dove si svolge la narrazione. Nonostante la perdita della vista getti un’ombra sul suo presente, dai suoi ricordi riusciamo a cogliere una luce intensa, a delineare il volto di un caro amico perduto, di una sorella cantante lirica e di una ragazza sordomuta che aveva follemente amato, quando stava iniziando, progressivamente, a perdere la vista.
Lei, una donna vestita interamente di nero, come un’ombra che si muove silenziosa, che ha perso l’uso della parola e che frequenta le lezioni dell’insegnante di greco. Le sue lunghe passeggiate solitarie sono un rifugio, il suo modo per sfuggire al mondo e ai suoi traumi: la sua terapeuta aveva svelato un passato tormentato, segnato dalla morte della madre e dalla perdita della custodia del figlio, ma il perché del suo mutismo resta un enigma.
Poi alle elementari aveva preso l’abitudine di annotare delle parole alla fine del suo diario. Senza scopo né contesto, un semplice elenco di parole che l’avevano colpita. Quella che le stava più a cuore era il monosillabo sup 숲 (bosco), con il suo aspetto fortemente figurativo, che lo faceva assomigliare a un’antica pagoda. Una parola che trovava compiutezza nel silenzio. Non si stancava mai di scriverla, affascinata da quel vocabolo in cui tutto-pronuncia, significato, forma- era avvolto nella quiete.
La verità le arrivava in frammenti distinti, senza contesto, privi di una coerenza complessiva, come i pezzetti di carta colorati nel caleidoscopio, che si muovevano insieme creando figure sempre diverse: una miriade di petali freddi, ostinatamente silenziosi.
La verità le arrivava incorporea, svincolata da ogni parola e da ogni punteggiatura divisoria. Il silenzio di uno sguardo era più immediato e intuitivo perché non inficiato dalla fisicità del contatto: il linguaggio, a confronto, era cento volte più fisico. Metteva in moto polmoni, gola, lingua e labbra. Si slanciava verso l’interlocutore facendo vibrare l’aria. Seccava la bocca, produceva schizzi di saliva, screpolava le labbra.
Il corpo, con i suoi organi della fonazione, rappresentava una barriera tra il pensiero e il mondo esterno. Ogni volta che la donna cercava di dare voce alle parole, la sintomatologia del silenzio prendeva il sopravvento e diventava una sorta di atto di resistenza.
La donna si piega in avanti.
Stringe più forte la matita.
Abbassa ancora di più la testa.
Le parole sfuggono alla sua presa.
Parole senza più labbra che le pronuncino,
senza più lingua e radice dei denti,
senza più gola e fiato, parole che rimangono inafferrabili.
Come fantasmi incorporei, la loro forma non si lascia toccare.
Il linguaggio, per lei, era un atto violento, un’aggressione inaudita contro l’altro.
Le parole, pronunciate ad alta voce, occupavano uno spazio fisico, imponevano la propria presenza, erano un’estensione invadente del sé.
Non era un problema di corde vocali o di capacità polmonari. Semplicemente non le piaceva appropriarsi dello spazio. Ognuno occupa un certo spazio fisico che corrisponde esattamente al volume del proprio corpo, ma la voce si propaga molto oltre.
Il mondo gli arrivava in immagini sfocate, dietro diapositive protettive; a rimanere nitidi erano solo i ricordi del passato.
Pochi anni dopo averti perduta, provai a guardare il sole attraverso due pezzetti di negativo. Alle sei di sera, però, perché a mezzogiorno mi faceva paura. Sentii un gran bruciore agli occhi, come se ci avessero versato dell’acido, e non riuscii a resistere a lungo. Non capii che cosa ti affascinasse tanto. Provai solo nostalgia. Per il dorso della tua mano, che non era più accanto a me. Per i rilievi blu delle vene sulla pelle dorata.
Il mondo gli arrivava dissolto, con i contorni disfatti. Davanti ai suoi occhi, chiusi o aperti non faceva differenza, una distesa nero inchiostro; le macchie sempre più confuse annullavano ogni confine e il sogno diventava l’unica realtà possibile.
Nell’attimo in cui mi rendo conto che ho solo sognato di avere gli occhi aperti, non provo dolore. Né senso di perdita o di rassegnazione. Mentre il sonno pian piano abbandona il mio corpo, volto semplicemente le spalle al sogno, senza esitazione. Gli occhi infine aperti, osservo semplicemente il soffitto sfocato. Constato semplicemente con calma che non c’è altro mondo al di fuori del sogno dove potrei fuggire di nuovo.
Due anime condannate alla mancanza come oggetti sopravvissuti per un pelo a qualcosa, come una sorta di rovina; due anime incompiute che trovano nel tocco la terra di mezzo in cui poter comunicare con l’altro. Solo nell’oscurità quando ogni suono scompare, i sensi si acuiscono e superano le barriere della comunicazione verbale, raggiungendo un livello più profondo di intimità.
Però se alzavo la testa, te ne stavi lì come una persona spaccata a metà, anzi, in tre, no, in più parti ancora […] In certi momenti mi facevi paura. Ma quando ho vinto la paura e sono venuto a sedermi su una sedia vicino a te, ho avuto l’impressione che anche tu stessi per alzarti e fare altrettanto, avvicinandoti a me […]
Con gli occhi chiusi, strofina la guancia sul viso di lei in cerca del punto più morbido, fino a trovare le sue labbra fresche. Senza aprire gli occhi, le bacia la bocca. Senza il minimo rumore, in lontananza le macchie solari esplodono. I cuori e le labbra che si toccano, uniti ed eternamente separati.
Nella progressiva scarnificazione delle pagine che intrecciano monologhi, dialoghi e poesie sempre più essenziali, potremmo dire che al centro del romanzo ci sia il linguaggio con il suo equilibrio precario. La perdita delle parole e l’incomunicabilità sottendono la rottura non solo psicologica, ma soprattutto sociale e culturale con il mondo esterno.
Rifugiarsi nel greco, una lingua antica e silente, è come cercare riparo in una città fantasma; l’afasia è un po’ come la Pripyat di Caparezza, una città abbandonata che ha perso la sua voce.
Non giudico nulla.
Non ascrivo emozioni.
Ogni cosa arriva in frammenti,
e in frammenti si disperde. Scompare.
Le parole arretrano un altro po’ dal corpo.
Come pesanti strati di ombra,
come tanfo e nausea.
Emozioni radicate e viscose si staccano.
Come piastrelle a lungo sommerse che hanno perso aderenza.
Come parte della mia carne marcita senza che lo sapessi.
Continuo a camminare nei vicoli di Amsterdam; nella mia mente le parole appaiono come macerie ingombranti.
Non parlo al mondo come prima,
la giostra è ferma come Pripyat.
La mia voce si è spenta come le luci di una città fantasma.
Claudia Melcarne
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