LA STANZA DI PIERA
Mi è rimasta una fitta nel lettino rosa
al sesto piano del quartiere romano,
ho attraversato la città di notte col freddo nelle ossa e il cuore
spappolato sopra il seggiolino, nel taxi giallo che segnava il tempo
col rumore a martello di una campana morta
mi sono avvolto sotto le coperte come nell’intestino
di un pachiderma:
in questo palazzo romano
grigio, doppio ascensore, scala per incendi e per fughe,
tutto telecamere e pulsanti per voci metalliche assordanti,
in questo palazzo muto, freddo, cupo
coi moscerini a milioni dentro le plafoniere
a luci fioche, con cassette postali gonfie di posta per
destinatari
ignori e astratti,
circondato da aiuole calpestate
galleggio su palafitte ripiegato sulle ginocchia,
nascosto giù nel fondo,
dietro la tenda attendo l’ombra
con la quale coprirmi, i miei fantasmi
(Vittorini, se ben ricordo, li chiamava topi,
quando partiva per la Sicilia, in preda ad astratti furori,
a cercare la madre, l’arrotino, il fratello morto in guerra
e le donne, quante donne, li chiamava topi)
e non ho con me neppure un ansiolin,
un vatran da dieci o cinque milligrammi,
nel mio letto rosa ho voi due mamme:
attorno alla tavola imbandita
in una cena andata via tra scherni ed ironie
tra reticoli stretti, col disagio che somiglia
a quello freddo delle finali
ai campionati mondiali
di scacchi
tra i due russi famosi: come ci amavamo tutti e tre
alla mia destra Antonietta galleggia sulla carriera televisiva
come sul sessantotto e sul vino bianco di Fontana di Papa,
Laura Betti l’ha chiamata per la fondazione Pasolini
ma lei non vuole, niente posti fissi: l’ho incontrata
al congresso sulla solitudine: c’era Carotenuto
a dire che la solitudine è un diritto,
a ricordare Einstein, la sua vita dannata nel privato,
il figlio folle, le mogli morte: Antonietta beve
e raccoglie barricate
di briciole di pane
intorno al piatto di orecchiette e carote,
i vuoti non li vede, lei ci crede, non mi vede e beve
(Vittorini, dopo il vino, ha incontrato i morti nel vallone)
alla sinistra Piera senza volto,
sdraiata sulla tavola imbandita, a gambe aperte
parla da sola, recita l’Amleto,
mi fa intuire il frutto nero: che immagino rasato
finalmente toccato, mangiato, ritrovato nell’umido,
l’acqua dentro di lei,
attraversando il buio, la caverna amorosa,
Piera non sogna, non snocciola il passato
del presente non sente che gli echi foribondi,
non cede, non affonda resta sull’onda
Piera non vede.
Piera non mi guarda.
Piera si tocca. Piera si accarezza.
Piera si lecca.
Piera non ha pietà.
E io?
Io resto a Vittorini, al suo viaggio famoso,
alla donna-bambina-sposa accantucciata
tra le ceste delle arance,
Io resto nel lettino al sesto piano: sulla bocca il sesso
caldo di Piera,
nel suo ventre come nel pachiderma
aspetto l’ombra.
Acquisti d’amore è diviso in ‘Stanze’. Le Stanze fanno pensare alle ottave ariostesche e ad Angelica che, nella versione di Ronconi, passa di stanza in stanza senza meta e senza senso. Sono tutte avventure slegate l’una dall’altra che porterebbero chiunque a perdere il senno, come succede ad Orlando, fino a che l’amico Astolfo andrà a riprenderlo sulla luna. Le Stanze Ariostesche, a loro volta, fanno pensare alle Metamorfosi di Ovidio. Anche lì si passa di storia in storia, di mito in mito, senza che i singoli tasselli siano legati tra loro in ordine ‘sensato’. Sono fotogrammi di una serie. Sono autori sull’orlo del nulla. Ma anche le avventure di Ulisse sono slegate, dettate da un fato-caso che lo spinge lontano dalla casa, sempre vicino alla meta sempre da essa ugualmente lontano. Sono avventure di ordine visivo, quasi come se si fosse a cinema. In questo senso, testi riconosciuti per la loro leggerezza, come avviene per l’Orlando Furioso o per le Metamorfosi, si avvicinano a testi niente affatto leggeri come l’Odissea.
Il fatto è che quando si passa di stanza in stanza e ogni stanza racchiude una donna maga, una protagonista ‘altra’, un’avventura, il nesso di consequenzialità temporale comincia a cedere. Per questo, come dice Idolina Landolfi, queste stanze sono una ‘storia infinita’. lo direi piuttosto interminabile. Sono luoghi dell’essere in cui nomenclature di strade,· di orari, di mezzi di trasporto, di riferimenti letterari (Vittorini, Fortini, Sereni, Saba, Ferrata, Sinisgalli, Landolfi) di parti di corpo, di medicine (Ansiolin Maalox) fanno massa unica in un insieme materico, dove ha vittoria trionfante il corpo, per quanto martoriato.
Come se nulla esistesse se non in quanto divorato maciullato piegato piagato dalle viscere e il sangue, come nei versi bellissimi «… col freddo nelle ossa e il / cuore / spappolato sopra il seggiolino, nel taxi giallo che / segnava il tempo / col rumore a martello di una campana morta / mi sono avvolto sotto le coperte come nell’intestino / di un pachiderma… »
Corpo che tende a entrare dentro un altro corpo. Corpo che si fa ancora più corpo ed è per questo a metà tra l’organico e il postorganico, perché qui il corpo trionfante è anche un corpo in disfacimento, ma laborioso e divorante, ‘cannibalico’, un corpo che non si ferma mai e divora ogni paesaggio: parole proprie, altrui, nomi, strade, persone, fatti.
Questo corpo, terra organica e macchina postorganica, spezza la catena dell’interminabile in cui camminano le Stanze. Le stanze camminano. Il corpo sta fermo a divorare. È un corpo Luogo. Un corpo Sud. D’altra parte, legandosi alla più antica tradizione greca, è un corpo legato agli Inferi la cui bocca come sappiamo era nel lago d’Averno. Allora, se le stanze camminano sulla superficie della terra, il corpo infero crea l’affondo nelle viscere della terra. Rispetto a questo straripare dell’essere magma, materia, macchina, detrito e tuttavia ancora carne e vita e sangue «la scrittura è una perdita»: «meglio di sé un calco duro che il muro di altri da sé». E questo calco duro non può non far pensare agli uomini terra pietra ombra di Pompei. Quelli che portano su di sé l’ultimo gesto di vita prima della catastrofe. Il corpo antico e modernissimo, che vive nei versi di Giordano, è l’allucinante lacerto di un’eruzione che da tempi immemorabili e, al contempo quotidiani, lancia un ultimo sguardo verso la vita che se ne va. E la pietrifica, dall’alto o dal basso di un tragico affondo nel corpo di se stessi. Il corpo come corpo del corpo. Anche la parola si è fatta corpo. Teatro tragico, secondo la più alta parola di un Sud dell’anima e delle cose tra le costellazioni della mente.
Marosia Castaldi
Il libro nel 1999
Luigi Giordano
Acquisti d’amore
Edizioni 10/17, 1997
Prefazione di Idolina Landolfi; con dieci disegni di Antonio Petti
83 p., L. 20.000
Il libro attualmente è fuori catalogo
La biografia aggiornata
Luigi Giordano vive e lavora a Salerno. Poeta, è stato presidente della Fondazione Alfonso Gatto. Dal 1989 al 1993 ha diretto la rassegna di poesia contemporanea “Poeta. Nuove Letture Internazionali”. Per il Centro Nazionale di Studi Leopardiani ha ideato e curato i convegni internazionali “Lo Zibaldone e i modelli letterari leopardiani” (1990) e “L’assedio del Nulla: negazione e utopia in Giacomo Leopardi” (1993). Tra le pubblicazioni Appunti sullo storiografia leopardiana (1980), La città rimossa (1982), Sognando di volare. Alfonso Gatto al Giro e al Tour (1983), “Fantasmia” (nel volume Una persona come noi due, 1992), Il viaggio, i miti, il racconto (1995), le raccolte di poesie: Acquisti d’amore (1997), Sedici passi (2000), Silenzio d’amore (2003), Un giorno persi la luce (2004), Memorandum (2007). Inoltre ha curato i volumi: Nuove letture internazionali. Piccola antologia (1990), Sanguineti, ideologia e linguaggio (1991), Alfonso Gatto, Il mistero di via Monaci (1996), Diversi racconti. Minimi orrori, piccole atrocità (1997), Coi ragazzi dall’inferno (1998), Confini. Racconti di fine millennio (1998), Transiti. Poesia di fine millennio (1998), Prefigurazioni. Storie dal nuovo mondo (1999), Le parole dei luoghi (2006).
30 Marzo 2020 at 16:09
È bello per emozione trovare un testo, e con esso la cara immagine, di Luigi, amico sempre presente al ricordo.