“Restare a contatto con il problema richiede la capacità di essere veramente nel presente, ma non come un evanescente anello di congiunzione tra passati terribili o idilliaci da un lato e futuri salvifici o apocalittici dall’altro: bisogna essere presenti nel mondo in quanto creature mortali interconnesse in una miriade di configurazioni aperte fatte di luoghi, epoche, questioni e significati” (Staying with the trouble, Donna Haraway
Sull’Amazzonia galleggiano centinaia di fiumi aerei, invisibili eppure ancora più voluminosi del fiume Amazzone. Un nativo della tribù Yanomami ci guarda dritto negli occhi, a noi bianchi, noi “che defechiamo nell’acqua”, così ci chiama a ragione, e ci dice che quando abbiamo cambiato il corso dei fiumi abbiamo smesso di parlare la stessa lingua (nel reportage fotografico Amazzonia di Sebastião Salgado). Quando devi il corso di un fiume come fece Mulholland in California, quei fiumi invisibili non accompagnano il nuovo corso d’acqua ma lentamente muoiono.
🔗L’ultima acqua non ha niente di apocalittico perché Chiara Barzini si lascia alle spalle entrambi gli inganni che hanno mosso una cultura intera, un’intera era biologica: il sogno di un paradiso incontaminato (da conquistare e meritare) e il futuro di una disperazione suprema (che poi è solo una forma di indifferenza e di autoassoluzione). Da un lato la città idilliaca, il paradosso di una città Los Angeles edificata nel deserto, il sogno romantico di fare comparire l’acqua lì dove prima non c’era nell’ennesimo gesto colonialista; dall’altro, l’apocalisse di una città in fiamme, di un mondo che si sta liquefacendo, inaridendo e richiudendo su sé stesso (“la distopia non ci aiuterà”). A lei interessa stare nel presente, “a contatto con il problema”, che vuol dire, come le insegna quella visionaria di Mary Austin -alter ego perfetto, con quel cappello da cow-boy impolverato, pessima madre, Cassandra nel deserto-, a convivere anche con la paura e il sacrificio. Con gli scheletri e le zone intermedie. E restituirci una mappa di connessioni tra luoghi, epoche, sogni, migrazioni, voli, questioni e significati, intimi e politici.
“Mi ero dipinta il viso di rosso con dei papaveri schiacciati, avevo scavato una buca nel terreno, avevo versato dentro l’intruglio e detto una preghiera”. Sotto le parole c’è sempre una specie di mappa: un punto di partenza, la prima particella e un punto finale. Li conosciamo esattamente anche se non sappiamo quando tutto è cominciato davvero né perché, se era un gemito, un sogno, come quello di Barzini di fare esistere le parole, o quei cavallini di plastica che dovevano plasmarsi nel fango, un incantesimo, o altro. Per Barzini quella prima particella si è legata ad una madre che non ti racconta una favola di gnomi ma ti dice di averne visto uno, reale o ad un padre che ti dice senza fare una piega Guardate i lupi. Non sappiamo esattamente quando tutto finirà, l’ultima illusione, anche se il tramonto ci sta sempre davanti, senza scappatoie. Quello che sta in mezzo, il viaggio, invece, è sconosciuto, anche se pensiamo di controllare ogni scelta, ci saranno condotti, a volte così neri che ti ingoiano, porte chiuse o aperte, buio o cielo; orientamento e disorientamento, lo scarto tra il bisogno di controllo e il desiderio di pienezza, la fuga o la sua elaborazione, insuccessi e consolazioni. Un volo attorno a cui costruiamo case. Sottoterra c’è l’acqua, e il fuoco e le faglie come in 🔗Terremoto, il precedente romanzo, “la possibilità della vita tra le macerie del Capitalismo”, direbbe Haraway. A Barzini piace scavare, cercare quella possibilità sotto le unghie e attraversare il disastro. Sotto c’è tutto quello che è già successo, sporco e meticcio, niente di incontaminato. La mappa è uno schema nevrotico, e la scrittura il suo principio organizzatore o solo la sua descrizione.
Una mappa topografica, come quella del vecchio manuale di Mulholland, che canalizzò l’acqua del Colorado River pompandola dall’Owens Lake verso Los Angeles. Creò una città dal nulla, ingannando la gente del posto con la menzogna di acquistare terre con accesso all’acqua. Un fuorilegge come quel Middleton di cui parla Olivia Lang -in un altro libro, in un altro viaggio intorno al tempo e allo spazio, a cercare le morti accidentali-, tutti quegli schiavi e morti nascosti sotto i grandiosi giardini paesaggistici all’inglese, “una rete di relazioni di potere che il paesaggio non cela ma esplicitamente esprime”. Seguendo la mappa di Mulholland, Barzini compie un road-trip lungo l’acquedotto. Ma la mappa topografica si sfoglia in una mappa interiore, di ricordi, degli anni vissuti a Los Angeles, nella Fernando Valley: sono già stata su questa collinetta. Perché il passato non si prosciuga. Quello che si è infiltrato sotto la pelle: noi dentro l’involucro. La bussola in questo viaggio apparentemente sgangherato e poco ortodosso, come i personaggi cari a Barzini, sono i dettagli, le coincidenze, oggetti a cui manca qualcosa, significati eccessivi, i presagi fausti e infausti: gli unici che in fondo ti possono annunciare se sei sulla strada giusta.
Quella di Barzini è una mappa melancolica sotto il livello del mare, che unisce la prima all’ultima particella d’acqua, passando per il Salton see e la sua storia sconosciuta, un bacino d’acqua spettrale oramai estinto, il luogo della fine di tutte le cose. C’è il dolore che “passa attorno al cuore senza mai attraversarlo”, i genitori che bisogna lasciare andare e i figli rispetto ai quali ci sentiamo sempre inadeguati, amicizie di una vita, soglie, cose indistruttibili manipolate da mani fragilissime, acque immobili e città frenetiche, città speculari (sotto Las Vegas ci sono quasi mille chilometri di tunnel), città fantasma e deserti sotterranei (il deserto è dappertutto); scarti che reggono imperi, apparizioni e sparizioni; i nativi americani, quelli del deserto del Colorado che avevano incontrato il modo di seguire gli umori dell’acqua e delle stagioni (staying with the trouble, “siamo sempre esistiti insieme alla frattura di questo territorio”) ma noi non li abbiamo voluti ascoltare, credendoci onnipotenti e li abbiamo ricacciati all’inferno; hippies che sperimentavano nuove comunità e simpoiesi, artisti vagabondi che vivono in baraccopoli, credendo di aver trovato l’ultimo posto libero in cui vivere, spiagge che sono cimiteri acquatici, laghi completamente prosciugati. Una mappa letteraria nuova che va da Joan Didion a Litia Perta, alla poetessa Natalie Diaz, Grace Paley, Toni Morrison, Virginia Woolf, di volantini e cartelli pieni di saggezza e premonizioni, Vola schiantati guarisci, ricomincia, tag e graffiti… È una mappa sulla scrittura di un romanzo che è anche un saggio che è anche un romanzo, e su quello che le permette di emerge. La scrittura ci ricorda Barzini è un desiderio, l’ultima illusione. Non è un romanzo sul disincanto ma pieno di illusioni. È un viaggio verso la realtà dove solo l’ostinazione delle illusioni ci può portare. A vedere il lato B delle cose.
Legare e staccare le particelle di materia, provare ad addomesticarle è un gesto sovraumano, possiamo solo osservarle nei loro moti, tracciare mappe, cercare storie perdute e fantasmi di storie, scrivere parole, fare giochi di filo, una gobba, un collo storto, un piede zoppo, elementi incongrui, sapendo che l’ultima acqua e l’ultima parola, l’inizio e la fine galleggiano in una completa anarchia in cui, come direbbe Haraway, niente è connesso a tutto, tutto è connesso a qualcosa. Lì in mezzo possiamo solo provare a non cambiare il nostro scopo. Noi che apparteniamo ad un’unica tribù, con un unico interesse che non siamo più capaci di mettere a fuoco. Un’unica foresta, un’unica acqua.
Silvia Acierno
E tu cosa ne pensi?