Un libro concepito e in parte scritto tra i venti e i venticinque anni: tutti i manoscritti di quell’epoca furono distrutti dalla stessa autrice, che riprese il lavoro una decina d’anni dopo, per poi di nuovo abbandonarlo. Della stesura del 1934 resta una sola frase: “Incomincio a scorgere il profilo della mia morte”. Marguerite Yourcenar trova il nodo centrale del suo lavoro sull’imperatore Adriano: è l’approssimarsi della fine che consente di raccogliere i gesti di una vita, di pensare a un lascito di pensiero e analisi su ciò che si è fatto, ciò in cui abbiamo creduto, ciò che ci trasforma nell’uomo che volevamo essere. Perché l’imperatore Adriano cui Marguerite insuffla il proprio respiro, è, soprattutto, un uomo. Un uomo grande, che appartiene alla storia, che ha costruito, regnato, amministrato poteri, combattuto nemici e ridefinito confini, e che, come ogni uomo, ha amato, sofferto. Sa in fine che lascerà il proprio corpo, un corpo minato che più non lo asseconda. È per il nipote adottivo Marco Aurelio la lunga lettera che egli scrive, e sulla quale la scrittrice struttura la narrazione. Ma quando, da cosa è nata, l’idea di calarsi nell’animo e nelle gesta dell’imperatore?

La prima visita alla villa Adriana di Tivoli fu nel 1924, con il padre Michel de Crayencour. Un nome di famiglia importante, che anagrammato, diventerà quello della scrittrice. Un padre ricco e colto, che le trasmetterà la sua irrequietudine di viaggiatore, la porterà in giro a vedere la bellezza del mondo, quella di cui – dice Adriano ne Le Memorie – “mi sentivo responsabile”.

Vi ritornerà con la compagna di vita, Grace Frick, incontrata a Parigi nel 1937, per poi farlo spesso quando verrà in Europa, dopo il trasferimento negli Stati Uniti, avvenuto allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Il manoscritto e gran parte dei materiali relativi al romanzo rimarranno nel vecchio continente, ma non vi soggiornerà con loro la curiosità verso la vita di Adriano imperatore: Marguerite ha con sé appunti presi a Yale, una carta dell’Impero Romano alla morte di Traiano – di cui Adriano fu successore – e l’effige di Antinoo vista al Museo Archeologico di Firenze nel 1926. La bellezza che la vecchia Europa ha ereditato dal mondo classico è una nostalgia di sottofondo, che accompagna la vita di Yourcenar. Nel 1941 scopre a New York una stampa del Piranesi raffigurante la Villa Adriana. Lei e Grace la comprano: vi si rappresenta la Cappella del Canopo, ove fu estratto l’Antinoo in stile egizio. Marguerite è ipnotizzata dall’opera del grande incisore e architetto, si scopre a contemplarla spesso; nei suoi segni ella scorge come “il genio quasi medianico di Piranesi vi ha fiutato l’allucinazione, i lunghi percorsi che la memoria ripercorre, l’architettura tragica del mondo interiore”. Un mondo interiore che è quello dell’imperatore che fa costruire un mausoleo in onore dell’amato giovine, ma è anche quello della scrittrice, che, se crede di aver abbandonato un progetto, vi resta legata nell’intimo. Nel 1947, tuttavia, Yourcenar brucia gli appunti di Yale. Nel 1948 la raggiunge al domicilio d’oltre oceano una valigia contenente carteggi di famiglia, lettere – alcune delle quali di difficile collocazione, ricevute da persone scomparse – fogli dattiloscritti di cui non sa più neppure se sia lei stessa l’autrice, e tra queste una che inizia con “Mio caro Marco…”. Ci vuole un po’ di tempo per ricordare che sì, è lei che ha scritto, e Marco è Marco Aurelio. Sono pagine del manoscritto perduto.

“Da quel momento per me, non si trattò che di scrivere questo libro, a qualunque costo”, confessa l’autrice, prima donna a essere membro dell’Académie Française.

Seppure la forma scelta sia quella della lettera in prima persona, che permetterebbe alla scrittrice di distaccarsi, volendo, dall’aderenza alle fonti, ella ha ricercato e studiato con alacrità e metodo i testi più importanti, non solo quelli degli autori antichi che parlano della vita di Adriano e gli autografi, ma anche quelli che l’imperatore stesso nei suoi scritti cita, quelli che potrebbe aver letto, la cultura greca di cui egli si è nutrito – “in greco ho vissuto, in greco ho pensato”, gli fa dire Marguerite. Lei stessa ci tramanda: “uno dei metodi migliori per far rivivere il pensiero di un uomo: ricostruire la sua biblioteca. Già da anni, senza saperlo, avevo lavorato a ripopolare gli scaffali di Tivoli. Non mi restava più che immaginare le mani gonfie di un malato mentre svolge i rotoli manoscritti. Rifare dall’interno quello che gli archeologi del XIX secolo hanno rifatto dall’esterno”.

È questo il punto. La Yourcenar desidera ricostruire un paesaggio interiore, una forma etica e morale, e non in modo didascalico. La scelta della prima persona permette l’assunzione di responsabilità ma anche la mancanza di filtri. Per quanto documentati e realistici possano essere i lasciti e le riflessioni, noi che abbiamo letto “Memorie di Adriano” non abbiamo sentore di tenere tra le mani il lavoro di un erudito. Dove finisce Marguerite che scrive, dove comincia Adriano? Non lo sappiamo, ma siamo abbastanza concordi, credo, che tutto quello che ne Le Memorie ci viene narrato sia plausibile. Di più: gli insegnamenti, le riflessioni dell’uomo antico, ci sembrano adatte a questo tempo, quello in cui viviamo, e rimangono adatte, a ogni rilettura, al tempo in cui la intraprendiamo.

La memoria di Adriano è intima, più scandalosa per noi adesso di quanto potesse esserlo per la propria epoca – persino – a dimostrazione che ogni decadenza culturale crea inciampi difficili da riconsiderare, sulla via dell’evoluzione del costume. “La verità che mi propongo di esporre qui non è particolarmente scandalosa, o meglio non lo è se non nella misura in cui non c’è verità che non susciti scandalo”, dice Adriano a Marco. Ecco, ogni verità è scandalosa, e questa verità ha cercato Marguerite, nelle pagine della Historia Augusta relative alla vita di Adriano, tra le lettere dell’imperatore e le sue poesie, nelle opere di Sparziano, nei capitoli della Storia Romana di Dione Cassio, nelle raccolte storiche e iconografiche tedesche, nei manuali di archeologia. Le effigi di Antinoo, il giovane amato da Adriano imperatore, sono messe sotto la lente attenta di chi vuole carpire elementi che riconducano alla sua esistenza: le abitudini, la grecità nei lineamenti. Antinoo nelle statue, nei bassorilievi, sulle monete. L’ossessione per il favorito, la fondazione della mitica città di Antinoa, in Egitto, dove egli trovò una misteriosa morte. “Antinoo fu, semplicemente, amato”. È questa la conclusione che ella trae. Colui che non è un uomo di stato, di potere, un filosofo o un condottiero, ha trovato nella forza dell’amore la propria consacrazione.

Yourcenar ha cura delle lacune che le restano: quelle incolmabili diventano imprecisioni, ineffabilità. “Le lacune dei nostri testi, per quanto concerne la vita di Adriano (…) potevano essere le sue stesse dimenticanze”, dice. Il tempo che cancella le tracce coincide così con il tempo che cancella la memoria, e rende ogni figura, anche la più gloriosa, più avvicinabile, fallibile. Persino le preveggenze che l’autrice attribuisce ad Adriano, devono essere “plausibili”, fare parte di quell’area di sensibilità che alcuni umani, più di altri, desiderano amplificare.

“Se quest’uomo non avesse conservato la pace nel mondo e rinnovato l’economia dell’Impero, le sue gioie, le sue sventure, mi interesserebbero meno”. Yourcenar è attratta dall’uomo illuminato, autocritico, capace di conservare una sua modestia. Lui è nato in Spagna vicino a Siviglia, suo padre è un lontano parente di Traiano, che lo adotta, non avendo discendenza.  È un segnato, non per nascita, per destino. E di questo destino si è fatto carico.

Memorie di Adriano esce nel ’51. Marguerite torna a Villa Adriana varie volte, prima e dopo la pubblicazione. Nel ’58 vi è di nuovo, allorché si prepara l’edizione italiana Einaudi, più fedele della prima, snaturata dall’editore che non aveva atteso le indicazioni della traduttrice Lidia Storoni Mazzolani. Ogni volta che torna alla Villa, è come tornasse in un posto in cui è vissuta: “Luoghi dove si è scelto di vivere, residenze invisibili che ci si è costruite a riparo dal tempo. Ho abitato Tivoli, ci morirò forse, come Adriano nell’Isola di Achille”.

Si innervosisce però quando qualcuno le dice: “Adriano sei tu”. Lo trova riduttivo, e allo stesso tempo: “Ogni essere che ha vissuto l’avventura umana sono io”, sostiene. Quindi non è Yourcenar a farsi come Adriano, ma è Adriano, a diventare più vicino a noi, per suo tramite.

La grande Dama della cultura novecentesca ha sicuramente rivoluzionato un genere letterario, e non solo. Alla pubblicazione de Le Memorie di Adriano già esistevano epistolari o diari immaginari di personaggi storici, ma nessuno di questi aveva raggiunto tale dimensione di confidenza, vicinanza al personaggio. Nessuno di questi aveva ricostruito non l’azione ma il pensiero, i sentimenti, del protagonista. Nessuno si era accostato al quotidiano, alle bassezze, alle paure di un individuo dotato di dimensione pubblica.

Dal giorno che è stato pubblicato questo libro, tutti coloro che scrivono lo fanno in modo nuovo. Nella letteratura contemporanea è divenuto naturale accostare personaggi storici a quelli di fiction, farli interagire. Di uomini che hanno segnato un tempo siamo pronti a indagare ogni dimensione. Scaviamo nelle pieghe delle loro confessioni per trovare lacune da riempire con la fantasia, o l’intuito; avviciniamo fatti realmente accaduti a quelli che avrebbero potuto essere e forse, solo per la natura capricciosa del caso, non sono stati. Ci immaginiamo azioni che avrebbero cambiato la loro vita.

“Qualsiasi felicità è un capolavoro: il minimo errore la falsa, la minima esitazione la incrina, la minima grossolanità la deturpa, la minima insulsaggine la degrada. Alla mia non può imputarsi alcuna di quelle imprudenze che più tardi l’hanno infranta: sino a che ho agito nella direzione ch’essa mi indicava, sono stato saggio. Ritengo tuttora che a un uomo più saggio di me sarebbe stato possibile essere felice fino alla morte.” Marguerite ce lo fa dire da Adriano. L’uomo, anche il più vicino alle sfere di qualche olimpo, tiene al proprio arco una freccia incapace di disegnare la perfetta iperbole. La storia degli uomini e gli uomini della storia si incontrano su qualche ascesa, o più probabilmente su qualche declino. Per questo Yourcenar ci ha fatto amare così tanto Adriano. Non è stato un narratore a cantarci le sue gesta, ne Le Memorie. È stata la sua voce, rievocata magistralmente dalla scrittrice, a parlarci vicino al cuore.

Anna Bertini