Medea, la maga barbara che arriva da lontano, dai territori brumosi del mito, del sogno e del silenzio, come un fantasma volteggia da secoli intorno noi. La sua figura infatti è entrata in molte pagine della letteratura come un’eco nel buio a cui dare ascolto per portarci altrove ma, in fondo, per ritrovare il nostro presente e con esso fare i conti. Perché Medea, principessa della Colchide, ci guarda oramai dal 431 a.C., anno della sua prima messa in scena, e continua a farlo.
Attraverso la guida di Maria Grazia Ciani, nel testo Medea. Variazioni sul mito, ora in una nuova edizione Marsilio, rintracciamo le orme di Medea tra le pieghe di quattro pièce teatrali nelle quali il sipario si alza su un personaggio diversamente interpretato e interpellato da vari autori. Come da tradizione della collana dell’editore, dopo una introduzione sulle rifrazioni letterarie dell’eroina, il volume raccoglie, come in un’antologia, brani scelti che ci fanno incontrare le parole di chi ha guardato a questa figura quando il mito si nutre del racconto che è presente in ognuno di noi. E come Edipo o Oreste Medea si è carica sulle spalle il fardello delle inquietudini delle varie epoche.
Ed ecco Euripide e la sua tragedia. Medea è a Corinto, in Occidente. La sua nutrice la osserva mentre si sta disperando e spegnendo, consumata dal dolore. Lei, che ha abbandonato e tradito tutto, patria, famigliari, identità, per seguire un uomo, il suo uomo, nelle imprese degli Argonauti alla conquista del vello d’oro, ora viene privata di tutto da quello stesso compagno di viaggio e di vita. Giasone, nonostante i reciproci patti e tutto l’aiuto ricevuto dalla donna per diventare eroe, la disonora perché non le serve più, la ripudia perché è deciso a sposare la figlia del re di Corinto per diventare lui stesso un re, ossia ciò che non gli era riuscito di diventare nella sua patria. Cosa non si fa per la ‘carriera’? E, mentre in Medea il pallore diventa quotidianità, la stessa nutrice intuisce che «il tuo cuore è violento, non sopporterà di essere offesa» perché intuisce che una donna può diventare crudele, estremizzare la propria natura fino a sfigurarsi pure di ottenere i propri scopi. Una donna peraltro di rara intelligenza e di lingua pungente che i Greci non sono abituati a vedere.
Osserviamo questa anima implacabile stretta nella morsa del dolore come si farebbe dalla costa di fronte ad un mare in tempesta che divora sé stesso e i cui esiti imprevisti fanno tremare di paura chi è rimasto a riva. Intanto i nemici avanzano a vele spiegate contro Medea che è per tutti una straniera e come tale guardata con sospetto per via della sua leggenda nera che la marchia. Ma la donna non si piega al volere dei più forti, degli uomini, e, secondo la lettura (o forse l’invenzione) di Euripide, per vendicarsi del marito, per annullare la sua discendenza, per fargli sentire l’amaro sapore di chi è diventato niente, gli strappa i figli con un «gesto orrendo e necessario». Medea è costretta a provvedere da sé con mezzi estremi e, in ultima istanza, a farsi uomo. Uccidendo i figli avuti con Giasone, annulla la madre che è in lei. E così dalla compassione si passa alla condanna.
L’infanticidio è un punto di non ritorno perché Medea non potrà più essere raccontata al di fuori di questo gesto. Il mito, che di lei restituiva ritratti anche benevoli, ora si infrange e la storia si fossilizza su una madre assassina. Le donne indietreggiano inorridite, la protagonista rimane definitivamente sola ma non prima di elevarsi, facendo valere la sua discendenza divina, sugli uomini e dettare legge e nuovi culti compresi quello sul ricordo dei figli. Che è un modo per chi è stato a lungo silenziato di avere l’ultima parola, persino sottraendo a Giasone la sepoltura della propria prole. Perché, in ultima istanza, Medea è la sola persona capace di tener testa a sé stessa.
La protagonista di Seneca evoca a sé tutte le divinità della vendetta, scaccia le paure interiori e alimenta il fuoco selvaggio del lontano Caucaso per rendere Giasone privo di una nuova moglie, stirpe e figli, ramingo e annullato come essere, esattamente come è successo a lei una volta arrivata a Corinto. Non c’è un piano meditato di rivalsa ma tutto è in balia dell’impulso, come un marinaio reso pazzo dall’impeto di venti contrari che vuole travolgere tutti nella sua caduta. Medea ci appare dunque come una macchinatrice di misfatti, ha la perfidia di una donna e l’energia di un uomo per osare l’inosabile. Seneca ci mostra tutta la sua anima nera mentre nel suo ‘laboratorio’ prepara il peplo, che avvolgerà di fiamme di lì a poco la sua rivale, evocando ogni maledizione mentre il suo io, maturato con il male, sibila: «Dove non vuoi, dove ti fa più male, là colpirò».
Se in Euripide Medea ci appare come un personaggio a tutto tondo, nello stoicismo di Seneca, attento alle questioni di etica e di comportamento del singolo, è un essere feroce la cui ragione è stata del tutto offuscata dall’odio: tutte le sue azioni vengono dunque dettate dall’ira, dall’impulso più incontrollabile che fa compiere azioni imprevedibili e irrazionali. Se nella tragedia greca Medea dimostra grandi doti oratorie e sa tenere testa ai propri interlocutori, ribaltandone i concetti, nella opera latina le sue parole ci giungono guastate da un delirio continuo. E la ricezione di Giasone risente del cambiamento di ottica: mentre in Euripide è l’eroe del vello d’oro, ambizioso di un potere che non ha mai avuto e insensibile alle rimostranze della moglie ripudiata a cui risponde con silenzi, in Seneca è un uomo di indole in fondo buona che si contrappone al male, preoccupato di garantire un futuro per i propri figli e, con il matrimonio con la figlia del re di Corinto, anche di potere dare loro dei fratelli, e si offre addirittura come vittima al disegno violento di Medea.
Per Seneca Medea è un personaggio infernale e la condanna è anteriore ai misfatti. La sua vita non sarebbe altro che una fitta trama di delitti consapevoli rivendicati con spavalda freddezza. Al suo arrivo a Corinto, essa è posta subito ai margini del vivere civile, tutti la ripudiano, vegeta nel suo mondo di stregoneria e magia nera che offendono il culto solare degli dei superi. Medea non sale sul carro del sole con una sua maestà come in Euripide ma sul tetto della sua casa con un figlio ancora vivo e l’altro già cadavere con uno sfrontato gesto di sfida nei confronti del marito e, in fondo, della società. E per Seneca liberarsi di questa donna impastata nel male più bieco, di questo corpo spurio che proviene da un mondo dal canone inverso, non è colpa ma merito.
Ma è sempre tempo per Medea. E la simbologia del suo messaggio si arricchisce di nuovi spunti.
La troviamo nella tragedia dell’austriaco Franz Grillparzer andata in scena nel 1821, spogliata dei tratti più eroici del mito e più ricca di sottili e moderne motivazioni interiori, certo più debole e apparentemente inerte nel suo confronto con il maschile, disposta a deporre per Giasone il proprio sapere magico e la sua parte barbarica. La vediamo infatti seppellire sotto terra, restituendolo alla notte, tutto il proprio passato, tra unguenti e spezie, per abitare un nuovo oggi, ora che è riparata a Corinto, con il proprio marito. Nella loro nuova città vuole arrivare agli altri con nuovi costumi, con diverse parole. Se non possono essere come vogliono, vogliono almeno vivere come possono.
Ma Medea è un’esule infelice, migrante isolata e discriminata per la sua diversità, diversità che non scaturisce dalle sue colpe ma ne diviene la causa. Giasone torna in una terra, Corinto, dove si è già sentito a casa, protetto a suo tempo dal re e dall’affetto della di lui figlia. Ci sarà ancora rifugio nonostante le calunnie che si dicono sul suo conto. L’indesiderata invece è Medea che si considera e viene considerata come una straniera venuta in un paese sconosciuto a portare scompiglio e così disprezzata, umiliata e guardata come una barbara selvatica, come l’ultima infima, lei che era la prima donna della Colchide. Per Giasone sembra arrivato il momento di ricominciare a vivere una vita nuova, non vorrebbe avere più accanto Medea ma si sente comunque in dovere, ma dura poco, di proteggere chi si è affidato a lui. Tuttavia il re di Corinto è spaventato per le arti oscure della colca ed è convinto che il potere di fare del male genera spesso anche la volontà di farlo.
Medea ha letto il suo uomo e colto il suo egoismo. Gli altri sono per lui strumenti delle sue gesta. Un uomo pieno di sé che bada solo all’utile, gioca con la felicità altrui e non gli importa se quello che fa lui è bene perché è bene solo ciò che vuole. Giasone è ancora stregato dalla presenza di Medea, non è più l’uomo di un tempo e chiede a Medea di restituirglielo: egli vorrebbe tornare a sentirsi come l’arco che scatta con slancio fulmineo e manda in volo la freccia verso il bersaglio, sa che potrà ritrovare quella forza appena lei se ne sarà andata. Egli, in fondo, non incolpa sé stesso ma Medea. Non è più Giasone ma solo la sua ombra e nelle vie e nelle piazze di Corinto, dove un tempo la folla inneggiava a lui e alla sua grande impresa, ora gli sguardi si abbassano, la gente si allontana, perché è considerato un reietto che deve la sua nuova identità alla vicinanza con Medea.
Considerata dal marito la causa di tutte le sue sciagure, la moglie ribatte parola per parola perché sa che si sta dipanando una narrazione distorta degli eventi. Dichiara che tutto quello che è stato fatto, anche cose orribili, è avvenuto in nome dell’impresa di Giasone. Ma a scrivere la Storia sono altri e per la ‘maga’, che per i Greci ha accezione negativa, arriva l’esilio. Ora è totalmente sola perché i figli, blanditi, decidono di non seguirla, ma non appare spezzata perché una forza, che non è ancora tangibile, cova sotto le ceneri. In Grillparzer Medea non ha un’indole malvagia ma sono gli eventi e le persone a renderla tale. L’uccisione dei figli però non è un atto necessario. La sua è la storia della difficoltà o forse dell’impossibilità di intendersi fra civiltà diverse, un monito attuale su come sia difficile per uno straniero cessare veramente di esserlo agli occhi degli altri.
In Lunga notte di Medea, tragedia rappresentata per la prima volta nel 1949 e scritta da Corrado Alvaro, Medea è una straniera che vive nella periferia dimenticata di Corinto. Da sola in casa, insieme alla nutrice e ai propri figli, attende, invano, l’arrivo del marito. Medea sta cercando di diventare come una donna greca. Ci appare pensierosa, ermetica, convulsa, veggente, sfinita e angosciata. Tra conoscenza e preveggenza Medea sa che Giasone cerca di risultare gradito a Creonte, lui sa piacere, sa mettere a profitto tutta la giovinezza che gli resta, anche se una ruga gli segna profondamente una guancia, per conoscere la figlia del re e per garantirsi un posto al sole.
Bandita da Corinto la madre, i suoi figli seguono lo stesso destino. Sono progenie di una straniera, abbandonati dal padre e dagli dèi, non c’è più fuoco con cui scaldarsi perché la loro presenza è impura, chiunque potrà ucciderli impunemente perché sono gente senza città e civiltà. Medea è sola e supplica la fiamma del fuoco di Prometeo a cui chiede, sola e disprezzata, una patria lontana dagli uomini, dalle contese dei re, dalle gelosie delle città, dall’ingratitudine degli uomini, dove gli stranieri sono ben accetti, una casa in cui lei possa essere padrona di sé, un angolo di terra, quale che sia, dove potrà guadagnare il pane magari facendo piccoli trucchi nelle fiere di paese.
Maria Grazia Ciani cita, anche se non inserisce dei brani nell’antologia, la Medea di Christa Wolf, romanzo pubblicato nel 1996 che nella sua elaborazione si basa su fonti pre-euripidee. Qui Medea non può essere un’infanticida perché una donna proveniente da una cultura matriarcale, quale era appunto la Colchide, non avrebbe mai ucciso i propri figli. Inoltre pare che Euripide, dietro lauto compenso, abbia inserito il gesto deprecabile di questa donna disperata per scagionare i Corinzi dalla colpa di avere lapidato i figli per punire Medea di avere scatenato con le sue arti malefiche la peste in città. In questo testo dall’andamento corale Medea è consapevole della propria inevitabile rovina che lentamente le si approssima e di essere per tutti il capro espiatorio, la minaccia vivente di un altro sistema di valori che come tale deve essere debellata. Tuttavia, irriducibile alle norme dei potenti, risuona alto non solo il tentativo di riscatto di un personaggio femminile a cui è stata negata una versione dei fatti ma anche il grido di protesta di una scrittrice che a sua volta è stata diffamata, negli anni successivi alla riunificazione, dalla stampa tedesca per essere rimasta fino alla fine fedele alla DDR, l’altra Germania. Dunque per Corinto Medea è la straniera, la barbara, per chi sta sul crinale vincente la tedesco-orientale Christa Wolf è la nota stonata e lo sbaglio della Storia.
E nel mondo che viviamo oggi chi è Medea? E chi è Corinto? L’antologia potrebbe allungarsi…
Claudio Musso
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