In questi giorni mi sono chiesta spesso se avrei fatto bene ad attraversare il confine, magari partendo dal Montana (da dove Dell Parsons, giovane protagonista di uno dei più bei romanzi di Richard Ford, comincia il suo viaggio verso nord), oppure dal Minnesota o dallo stato di Washington. Attraversare il confine ed entrare in Canada, lasciandomi alle spalle per un po’ gli Stati Uniti.

Pensavo e ripensavo. Avevo in mente Truman Capote: lo immaginavo seduto con Nelle Harper Lee nell’appartamento di lei, nell’Upper East Side, New York, dopo la strage dei Clutter – novembre del ‘54. Lo immaginavo mostrarle il trafiletto strappato da una pagina del New York Times, appena poche righe con la notizia di quel crimine orrendo, nelle pianure del Kansas. Lo immaginavo chiederle, con la sua voce stridula, se lei volesse accompagnarlo a Holcomb. Avrei voluto scrivere di lui, Truman Capote. Poi ho deciso di viaggiare verso il Canada, senza voltarmi indietro. Mi sono detta: è America, comunque. Mi sono detta che lo dovevo fare, dato che c’era un libro di cui avevo bisogno di parlarvi. Un libro importantissimo, per me, un libro che si intitola Swing low, la cui autrice si chiama Miriam Toews.

Il Canada, terra di quei gioielli che sono i racconti di Alice Munro (da Wingham, contea di Huron, Ontario), e terra di Margaret Atwood (da Ottawa, la capitale).

Il Canada, terra di Miriam Toews – da pronunciare come saves, teniamone conto – nata nella città di Steinbach, a sud-est di Winnipeg, in Manitoba, regione un tempo abitata dal popolo Ojibwe. Steinbach, fondata nel 1874 da un gruppo di famiglie russe (ora dovremmo dire ucraine), famiglie mennonite, appartenenti alla più numerosa delle chiese anabattiste, la cui prima lingua era – in parte è ancora così – il basso-tedesco. Steinbach, un punto nelle praterie del Canada anticamente percorse dagli Ojibwe, un posto che il mondo conobbe nel 2004, leggendo Un complicato atto d’amore, uno dei capolavori della Toews – in quelle pagine Steinbach aveva il nome di East Village ed era, agli occhi della ribelle e anticonformista Nomi, voce narrante del romanzo, fatto di grandi silenzi e fattorie, macelli e polli sgozzati, regole, divieti e tradizioni.

Regole, divieti e tradizioni: i mennoniti, puri tra i puritani. Nessuna frivolezza, soltanto l’essenziale e la parola di Dio. L’acuta percezione del male e della colpa, a cui si legano spessissimo vergogna, controllo e ipocrisia. Tenere il conto di tutti i peccati, uno dei quali, molto pericoloso, si chiama irriverenza (shputting, in basso-tedesco). I mennoniti, bloccati sul confine tra il mondo – con la sua confusione, il suo disordine e la sua ambiguità – e l’assoluta intransigenza del Verbo di Dio. Bloccati tra la vita e la purezza, tra caos e perfezione, inferno e paradiso. Intrappolati, in alcuni casi. Perché può diventare una specie di trappola, questo stare nel mondo dovendo starne fuori.

La Chiesa Mennonita Ordinaria era solita ostracizzare e cacciare i membri che acquistavano automobili con tettuccio apribile, possedevano radio, ballavano, fumavano, bevevano, dubitavano, o che in casa avevano installati telefoni rossi, o frigoriferi color avocado.

Il bisnonno di Miriam era tra coloro che videro la nascita di Steinbach (“Shitville, la chiamavamo”, ha detto lei, colpevole di shputting, parlando di quand’era ragazza), esuli mennoniti a cui la regina Vittoria aveva fatto in modo venissero assegnati, senza pagare nulla, terreni coltivabili. E dunque eccolo lì, l’esule Toews, nella nuovissima, solo abbozzata Steinbach – allora, appena un villaggio – un punto sulle pianure canadesi così lontane dall’Ucraina. Poi ecco Henry, il nonno di Miriam, che allevava polli e galline e che vendeva uova, e poi suo padre, Melvin, ancora e sempre a Steinbach, là dov’è nata lei, nel 1964.

È lui, chiamato Mel, maestro elementare, sposato con Elvira e padre di due figlie, l’uomo di cui stiamo parlando. È lui la voce di Swing low – voce preziosa come l’oro – è lui a raccontarci questo:

Tornai a stendermi e mi misi a piangere, finalmente, e pensai, è finita, si sta riversando, il mio guscio si è incrinato e non avrò mai più un’altra possibilità.

È l’ultima cosa che ricordo di me come uovo. La mattina seguente o quattro giorni dopo, nessuno mi disse quant’era durato, mi svegliai qui in questo ospedale e mi fu diagnosticata una psicosi maniaco-depressiva. Mmh, feci quando il medico me lo disse. Ha fame?, mi chiese lui. Mmh, ripetei. Ero occupato a pensare.

Stare tra il mondo e il mondo di lassù, tra inferno e paradiso. Restare in bilico ma poi spezzarsi in due. Stare coi piedi in terra, tra frigoriferi e telefoni, figli e vaschette di gelato, aule scolastiche e campi di patate, con gli occhi rivolti perennemente al cielo, rivolti alla purezza, e poi, a un certo punto, sentire il proprio guscio che si incrina.

Capita così spesso, a così tanti di noi.

Può c’entrare la fede oppure no. In ogni caso c’entra sempre la vita, il modo in cui è fatta. C’entra il mistero di chi siamo, e l’antico conflitto che ci portiamo dentro tra luce e oscurità.

È la voce di Mel – un guscio che si incrina – questo romanzo-vita che è Swing low, da leggere d’un fiato, a volte triste e a volte divertente, buffo e serissimo. E soprattutto autentico, vero fino al midollo, vero di quella verità che appartiene soltanto alle storie.

È la storia di uomo, buon padre e buon marito, buon mennonita e ottimo insegnante, però spezzato in due. La storia della sua resistenza, del suo spezzarsi, del tentativo di rimettersi insieme, del suo riuscirci e insieme non riuscirci. Ed è la figlia Miriam a restituirgli voce, pensieri e ricordi, con la potenza di un romanzo. È lei a riportarlo indietro, a rimetterlo al mondo, di nuovo a Steinbach, sulle pianure canadesi, perché Mel possa dirci com’era essere lui. Perché ci possa raccontare la sua storia.

È solo una cosa che ogni tanto capita, una storia vecchia come il mondo, e stavolta è capitata a me.

Adesso c’è una cosa che devo dirvi io, una delle ragioni – ce ne sono moltissime – per cui questo romanzo è così irrinunciabile, per me. C’è un altro padre, in ciò che state per leggere, e non si chiama Mel.

Durante un ricovero in psichiatria, nel 2009 – ricovero urgentissimo – in qualche modo mio padre riuscì a convincere il medico di turno che non aveva alcun problema, che stava bene, che tutti noi, la sua famiglia, avevamo esagerato. Era un errore che si trovasse lì. Mio padre era un talento nell’arte del dissimulare, e tanto fece e tanto disse che venne dimesso. Quel medico gli diede persino il denaro per pagare un taxi.

Così, in piena notte, mio padre – in realtà furente, convinto che noi tutti facessimo parte di un complotto – a bordo di quel taxi attraversò le strade addormentate e salì su tra i boschi, scese davanti a casa e si attaccò al campanello, strappandoci dal sonno.

Amavo mio padre, ma in quel momento non volevo farlo entrare: avevo paura di lui. Ma ci dovemmo arrendere.

In quella notte orribile, mia madre dormì in un’altra stanza. Si chiuse dentro a chiave. Lui restò sveglio tutto il tempo, a immaginare chissà cosa, covando chissà cosa.

Più o meno un mese dopo, era di nuovo nient’altro che un fallito – sono parole sue. Era depresso, era inconsolabile. Piangeva tutto il tempo. Credo non ricordasse nulla di quella notte orribile.

È stata questa la vita di mio padre, in special modo nei suoi ultimi anni. In bilico da sempre tra due poli, appeso tra due mondi, cadendo da una parte e poi dall’altra. Nei giorni buoni, però, era quel padre a cui ripenso adesso: divertentissimo, arguto e intelligente. Da sbellicarsi, e lo dico sul serio. Un uomo irresistibile e pieno di invenzioni. Gli volevamo bene, e lui ce ne voleva.

Mi chiamava cespuglio, per via dei miei capelli.

Aveva bellissimi occhi azzurri.

Portava le bretelle e camiciotti a scacchi.

Fumava di continuo.

La vita può diventare un guscio che si rompe. Provandoci, riusciamo a ricomporla, almeno per un po’. È un pendolo che oscilla.

La vita a volte è Mel, figlio di un mennonita che vendeva uova, nipote di un mennonita russo, giunto sulle pianure canadesi, padre di una scrittrice meravigliosamente colpevole di shputting, il cui cognome fa rima con saves, qualcosa che ci salva come ci salvano le storie. Mel, col suo bipolarismo, che non ha fatto che tentare di rimanere in piedi. Mel, intento a scrivere da un letto di ospedale:

Così, attraverso il muro, signor Toews, incassi la testa in modo da non spezzarsi l’osso del collo, attraverso i muri e poi fuori, sarà bellissimo respirare un po’ d’aria fresca.

Sarà bellissimo, davvero, così come Swing low.

Quell’aria che si respira là, mi viene da pensare, mentre si torna indietro verso gli Stati Uniti, puntando su New York, e ci si volta ancora per un attimo per dare un’occhiata alla città di Steinbach, dove Mel Toews, con tutte le sue ombre, fragile come un uovo, buono e depresso, amato dagli alunni, amato dalla moglie e dalle figlie, faceva il maestro elementare.

Elena Varvello