Nel 2016 usciva un film del regista spagnolo José Luis Guerín, L’accademia delle muse. Il regista filmava le lezioni del filologo napoletano Raffaele Pinto, professore sessantenne all’università di Barcellona. La platea di Pinto era composta soprattutto da donne, ragazze, studentesse. Una platea di “muse”, una sarebbe divenuta l’amante del professore, che voleva esplorare la capacità seduttiva della parola e spiegare le muse classiche, esemplificandone la funzione “attiva” e “civilizzatrice”, attraverso la creazione di una accademia di muse. Tra le protagoniste compariva anche la moglie apparentemente nel ruolo di musa con diritti di anzianità, la donna pronta a perdonare tutto al marito, perché lui tornerà sempre da lei, lei ha le chiavi del suo cuore, e tutta questa roba qua. In fondo distrutta, lì negli occhi, dalla relazione del marito con una delle studentesse. Guerín lo sa e ce lo mostra in modo molto delicato, attraverso quelle sue immagini sempre rigate da qualcosa, dalla pioggia che scivola, da un riverbero che appanna i volti. In realtà è lei, con il suo dolore, la sua diffidenza rispetto al progetto pedagogico del marito, e l’ironia, la vera protagonista di questo documentario. Lei che in realtà ha smesso di essere una musa.

La musa è per necessità intrinsecamente donna, così scrive Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso. Immobile, in una eterna posa, oggetto dello sguardo e dell’azione dell’unico soggetto di questa dialettica così sbilanciata: l’uomo. La donna, così come è stata costruita e menomata dalla cultura patriarcale, era perfetta per fare da ponte tra la realtà, con tutte le sue contingenze, e la poesia, tra l’inferno di quaggiù e il paradiso di lassù, tra immanenza e trascendenza. Anche se l’unico ad elevarsi sarebbe stato ovviamente lui, il poeta. La parola musa sintetizza tutto questo. È piena di insidie, perché nasconde la lusinga che è stata (ed è ancora) quella grande esca, la merce di scambio con la quale e in nome della quale ci siamo fatte ingabbiare. Per questo, per tutto quello che evoca, è una parola che non mi piace. Non mi piace neppure quell’idea stantia della musa che “feconda” l’opera del poeta, noi altre sempre legate alla procreazione.  Allora arrivano i tentativi di dargli nuovi significati: il gioco di parole di “musa e getta”, che rimanda ad altri, les “muses insoumises”, o Les insoumuses…

Eppure una volta chiarito che il secondo sesso è l’altro sesso, senza gerarchie né discriminazioni, legittimato e probabilmente relativo tanto quanto il primo, allora forse possiamo chiamare queste donne anche muse. Muse e basta senza necessità di aggiungere altro. Senza troppi scrupoli, recuperando uno dei significati di questa parola ovvero di passo che lega ordine e caos. Quella sottile linea di senso tra realtà e irrealtà che è il mito, in cui si dispiega la creatività nelle sue molteplici possibilità. Una creatività che appartiene a tutti noi. Dove siamo tutti soggetti, anche le muse. Perché è proprio in questa striscia di terra che queste donne con i loro talenti, dedicandosi tra mille difficoltà al mestiere di fotografe, scrittrici, psicologhe, pittrici, teoriche, scienziate, modelle o semplicemente esseri umani con i loro segreti magari inconfessabili e le loro emozioni magari eroiche, smettono di vivere come esseri “relativi” nel senso usato dalla filosofa francese.

Le muse raccolte in questa antologia curata con grande passione da Arianna Ninchi e Silvia Siravo, sono accostate in modo audace. Da una posatissima Lou-Andreas Salomé a una modernissima Kate Moss che percuote la passarella. Perché forse l’audacia è uno dei fili sottili e meravigliosi che uniscono le loro vite. Sono state le muse di uomini molto più famosi di loro, “geni immortali”, che a volte le hanno schiacciate come Picasso fece con Dora Maar, tanto per citare una storia conosciuta. Ma questo, forse, non ci interessa poi tanto, è stato già detto e ridetto. Sono soprattutto donne che in modi diversi hanno avuto sé stesse tra le loro mani, a stento o saldamente, in quelle mani a cui era spesso precluso tenere stretto altro. E hanno tenuto sé stesse anche laggiù nel baratro da cui alcune provenivano, come Sabine Spielrein, e in cui altre finirono, come Dora Maar o Zelda Fitzgerald, nel suicidio che alcune come Jeanne Hébuterne compirono come l’ultimo gesto di una lunga premonizione, nel malessere anonimo da cui alcune scappavano, o semplicemente nel desiderio tenace di allontanarsi e di cambiare qualcosa. Anche lì, nell’imbuto orizzontale di un paesaggio spietato dove passeggia Dora Maar, dopo Picasso, dopo molti elettroshock e sette anni di psicoanalisi con Lacan.

Ritanna Armeni, autrice del primo racconto, va lì nella parte dell’anima di Nadia Krupskaja, che fu anche la moglie di Lenin, dove la rivalità con Inessa Armand, che fu anche l’amante del leader politico, anonima ancora più della prima, è sempre stata tenuta a bada e censurata. La Amanda Lear di Maria Grazia Calandrone non smette di provocare, di valicare continuamente il limite tra vittima e carnefice, sogno e realtà, vita e teatro. Della storia di Maria Callas, Angela Bubba sceglie di raccontare il set di Medea, il film di Pasolini di cui fu la protagonista. Quando una musa incarna un altro mito, una Medea creata su misura per lei da Pasolini, e l’effetto di autoerotismo e di “catalizzatore” è moltiplicato a scapito dell’altro, di Maria, di quel sorriso largo e fragile, senza il trucco della scena, senza voce, che accoglie anche quell’ennesimo amore impossibile.

Maria Callas e Pier Paolo Pasolini

Nell’antologia c’è una sconosciutissima scienziata, Rosalind Franklin, che aveva fotografato per prima la struttura del DNA senza però essere a Stoccolma quella sera del 1962 alla consegna del Nobel ai più conosciuti direttori di quella ricerca, coloro che rovistarono, spiarono e si mostrarono quella foto, proprio quella decisiva, senza che lei Rosalind sapesse niente. La Pamela de Barres di Elisa Casseri si muove tra i resti di uno scenario da incubo che si è svuotato di colpo e una ruota che fortunatamente non ha mai smesso di girare. Una groupie che non vuole più essere solo quello, cioè una minorenne che andava appresso alle stelle del rock, ma una donna per la quale il rock and roll quello di Jim Morrison, di Mick Jagger e di tutti gli altri era un battito in più sotto la pelle e quei look stravaganti che si cuciva addosso per attirare l’attenzione assieme a uno stile di vita scapestrato erano un oltraggio necessario. Luisa Baccara è stata “la signora del Vittoriale”, eppure Tea Ranno non la ritrova in quei corridoi, eccetto quando le mostrano il pianoforte che suonava. Come se fosse sempre rimasta lì, come se solo quel trapezio di luce fosse davvero stato il suo posto nella vita di D’Annunzio: al piano suonando e ispirando il narcisismo del poeta. Laure, la musa scelta da Igiaba Scego, fu la modella anonima di Manet, il cigno nero, l’altro in assoluto. Esotico come una tappezzeria, tutto quello che affascina e repelle. Poi arriva Regine Olsen, la donna amata e lasciata da Søren Kirkegard. Veronica Raimo ce la restituisce in tutta la sua banalità di donna qualunque per mostrarci forse anche la banalità di una passione elevata dal filosofo che l’amò a un ideale, un amore di cui non si può essere all’altezza e quindi da condannare alla non vita, immolato su un piedistallo, non importa con il sacrificio di chi.

Alene Lee è stata la musa di Kerouac. Durastanti la caccia fuori del bugigattolo dell’East Village in cui viveva solo per riportarla di nuovo lì, nel suo sotterraneo, dove batteva a macchina i manoscritti di Borroughs e di Allen Ginzberg, prima di incontrare Kerouac, prima di diventare Mardou, la donna di Leo nei Sotterranei, quella che non avrebbe mai voluto essere. Nel suo piccolo anfratto di emozioni, con la sua piccola storia che l’aveva portata a New York.

Il racconto di Ilaria Gaspari si svolge negli occhi di Jeanne Hébuterne, quegli occhi che Modigliani, il suo amante, ha ritrattato tante volte. Gli occhi che i surrealisti svuotavano, graffiavano, trasparenti come veli o specchi, per aprire una feritoia sull’informe, teorizzato da Battaille, sul vuoto. Ma gli occhi sono sempre pieni e dentro c’è sempre nascosto qualcosa. Di Zelda Fitzgerald, Cristina Marconi scrive una frase che in qualche modo vale per tutte le  muse. Una specie di motto “Zelda non appartiene a nessuno ma non appartiene ancora a sé stessa”.

Lisa Ginzburg ferma Lou-Andreas Salomé mentre attraversa in treno la steppa russa assieme a Rilke. La ferma proprio lì, nell’atto di scrutare (to muse) Rilke troppo giovane ed egoista, come se i ruoli si siano invertiti e lei allora in quel momento capisce qual è davvero il suo destino.

Kiki de Montparnasse è la musa per eccellenza, la musa-puttana. Posò per Foujita, Man Ray, Mendjinski, Moise Kisling. Entrava anche nei loro letti, ci entrava anche per riscaldarsi. Ne usciva per seguire altri corpi e altri sogni, in un’euforia bulimica. Dipingeva se gli lasciavano i pennelli, cantava a squarciagola se le lasciavano il palco, danzava sgraziata, mostrando tutto quello che c’era da mostrare, apriva cabaret, tentava la sorte come attrice fino in America, come cantante fino a Berlino, e ancora, fino alla fine.

Kiki de Montparnasse

Sabina Spielrein fu la giovanissima paziente con cui Jung sperimentò per la prima volta la cura della parola. Prima di diventare una psicanalista e psichiatra talentuosa e dedicata, l’unica donna alle riunioni del mercoledì a Vienna, i cui studi influenzarono Piaget e Melanie Klein, la psicanalista che lavorò sull’idea della pulsione di morte prima ancora di Freud, e poi semplicemente e soprattutto una donna che lavora nel suo studio nonostante le persecuzioni razziali, fu una specie di oggetto di scambio nella corrispondenza tra Jung e il maestro Freud, un transfert di cui parlare ma una passione da tenere nascosta in quelle lettere, una lettera di raccomandazione quando “guarì” ed entrò all’università per studiare medicina, e poi una lettera di presentazione quando arrivò a Vienna.

Anna Siccardi scompone Dora Maar, come in realtà Picasso non riuscì a fare nonostante tutti quei ritratti destrutturati. Per arrivare a quella Dora che ha permesso al pittore di portarla in un terreno perdente quello dell’amore senza fine, da fotografa a musa che posa per gli infiniti ritratti in cui Picasso pretende scomporre i lineamenti e le lacrime ammettendo la falsità del racconto univoco e inseguendo la pluralità dell’essere ma con la pretesa di potere lui catturare comunque quella pluralità. Nel terreno dove Picasso ha usato il suo talento ed entusiasmo, istigato la sua gelosia. Usata e gettata, come era accaduto a tutte le altre. Per cogliere un’esitazione, una donna che vede se stessa, tutto quello che ha permesso, tutto quello che ha perso, non l’ambivalenza della maschera.

Picasso e Dora Maar

Poi arriva Kate. In realtà arrivano Kate e Chiara Tagliaferri. Perché il racconto di Tagliaferri è in un certo senso il più autobiografico. Kate Moss è stata la musa di Tagliaferri dagli anni dell’adolescenza, marcandola come una specie di idolo. In qualche modo Moss cambia il paradigma, come se sia lei ad usare e gettare gli uomini che a sua volta la usano senza però riuscire davvero a consumarne la vitalità e gettarla. Ma è soprattutto nel modo in cui Tagliaferri la percepiva, nella finzione o nella realtà, non importa poi tanto. Nella capacità di specchiarsi in lei. La musa non è più l’altro, tutti gli opposti di quella lunga somma di binomi che è stata la cultura occidentale. Ma sono io stessa. Non sono diversa da te.

Le muse diventano così nuovamente muse ma diversamente, o anti-muse, stavolta muse delle scrittrici riunite in questa antologia. E diversamente perché il finale, quello che le accomunava più o meno tutte, ovvero una specie di oblio, sicuramente l’oblio o lo snobismo della storia, cerca di essere ribaltato. La sovversione avviene nella scrittura, attraverso l’immaginazione e la finzione. E proprio perché queste donne sono figure marginali, poco documentate, la finzione è il luogo privilegiato per ritrovarle. La finzione come territorio misto di contaminazioni e disequilibri più che di armonie, dove la filologia e lo studio della tracce lasciate da queste donne, poche, evanescenti come le emozioni che spesso sono il segno più profondo in cui indagare, sono sostenute dalla finzione che non sarà mai assoluta perché avrà della radici storiche che affonderanno in un autobiografismo che non potrà mai essere una forma di realismo ma scenderà giù a fondo nella memoria che non smette però mai di ingannarci.

Lì giù, nelle radici della finzione, dove le luci si accendono e si spengono, nel luogo della confabulazione, dove l’unica forma di moralità è forse solo non nascondere niente nemmeno tutto ciò che nascondiamo, le parole cercano di raccontare queste donne.

E ancora la sovversione avviene attraverso la scrittura come gioco segreto, quello di cui parla Elsa Morante, dove si legano il teatro, le infinite sfumature della menzogna e l’immedesimazione. Non il teatro (o la scrittura) che blocca i personaggi in frasi e punteggiature artificiali, un po’ come succede a queste donne che sono strette nel loro destino di musa. Ma attraverso il gesto liberatorio dell’immedesimazione di cui fanno prova tutte le scrittrici raccolte in questa antologia, con la sua dose di empatia, simbiosi, curiosità, invidia e desiderio. Immedesimazione che non è tanto cercare l’altro simile a noi ma piuttosto la tensione a creare noi stessi e la nostra soggettività accostandoci all’altro, alle muse, al personaggio in modo necessariamente incoerente, eccessivo e disarmonico. Fino a dire “io, Alene Lee”, come fa Claudia Durastanti.

Kate Moss

Le muse sono state donne amate, adorate o vilipendiate o tutte e tre le cose assieme. Spesso c’era complicità ed intimità ma spesso avevano un prezzo. Nelle pagine dell’antologia continuano ad essere legate ai loro amanti o compagni, uomini che tutti conosciamo, spesso in cerca di grandi ideali e di gloria. Come se il loro destino sia di esistere inevitabilmente in rapporto a loro. C’è questo eco dell’ego dei loro compagni, che non riesce a contenersi nemmeno in queste pagine che vogliono dare voce piuttosto a loro. Sicuramente si sentivano muse: ovvero dovevano provare un certo compiacimento per essere state prescelte. Salvo poi soffrire per l’eterna inadeguatezza. Ma ai loro occhi, quando si riflettevano in quello specchio che Maria Grazia Calandrone pone quasi distrattamente sulla scena del suo monologo, dovevano vedere sicuramente anche qualcos’altro.

Lo specchio che riflette il cielo azzurro nella scenografia di Calandrone mi rimanda allo specchio su un carretto che riflette il cielo verde della sera di cui racconta Natalia Ginzburg. Quella cornice che non specchia alcun volto eppure riflette l’immagine della felicità, passa oltre, su quel carretto. È un’immagine che muore dentro, che Ginzburg non racconta perché non può farlo. È un’immagine che in qualche modo può solo essere vista ma non può essere scritta. La verità che lei cerca riducendo al minimo tutto quello che è finzione romanziera, in un certo senso non può essere raccontata.

Ed è quest’immagine mancante, passeggera, la più realista senza avere peraltro niente di nitido, che se tieni dentro e non racconti, muore, che i racconti dell’antologia Musa e getta cercano, in modi diversi, di tirare su, in superfice. Anche se non è sempre possibile, anche se sono pezzi rotti, attimi imperfetti, guizzi. Sono gli occhi vitrei di Jeanne Hebutérne, la stanza piccola di Alene Lee, in cui va a rovistare Claudia Durastanti, i pensieri muti di Lou-Andreas Salomé, o il gesto enigmatico di Kate Moss.

La finzione in fondo riempie una distanza, raccontandola in infiniti modi, a volte colmandola solo con le parole, perché non è possibile fare altro. E per questo è anche il luogo privilegiato per ritrovare queste donne. Perché la distanza è forse anche la cifra di queste muse e di tante altre donne (e in generale delle figure secondarie) che hanno lavorato e creato, ma non hanno avuto nemmeno il privilegio di passare alla storia come muse, solo un anonima fetta di umanità. La distanza con quella cultura prevaricatrice, quella che ha usato e gettato. La scheggia, il tassello mancante, quello che è stato buttato più in là.

Silvia Acierno