Alba de Céspedes ha vissuto frequentando confini culturali e geografici; da apolide si è potuta permettere di scrivere dai margini, scavalcando spesso il cornicione che separa i generi e le lingue. Bazzicando tra patrie, mestieri, arti e politica ha trasformato il mondo vissuto dagli oblò degli aerei e dai finestrini dei treni nella sua letteratura.
🔗Nel buio della notte, pubblicato nel 1976, è una delle sue ultime opere, quella narrativamente più audace e spoglia: un romanzo senza maschere (proprio perché affollano tutte le pagine) nel quale la protagonista è la notte tra il 20 e il 21 marzo 1972 a Parigi.
È infatti come se fosse la notte stessa a raccontare, restituendoci le voci delle vite che si svelano e si spogliano lungo le ore di buio come una miniatura dell’esistenza intera. Il romanzo inizia con un’inversione circadiana: il tassista Jacquot si sveglia ma scopriamo, con quel disappunto dettato dalle sovversioni impreviste, che non è mattino ma tardo pomeriggio, poco prima del tramonto. ll giorno si sta dissolvendo nelle ombre serali che fagocitano senza spegnere, semplicemente ovattando i contorni troppo netti che il sole mette in risalto, restituendo una sensibilità diversa che si sveglia su un popolo notturno abituato a perdere ogni filtro. E che brulica tra serate, turni di notte, centralini, alcove, luoghi dai confini sfumati tra l’essere e il non essere, tra il sonno e la veglia, tra il lavoro che si lascia e quello che si raggiunge, tra la fuga e il ritorno, anche se non è chiaro da dove si fugge e dove si stia tornando.
“Pensano a tutto ciò che non hanno mai avuto il tempo di fare: andare nell’antico quartiere del Marais dove, la sera, i palazzi sono illuminati – ci vengono di lontano, per vederli… – oppure passeggiare al tramonto nel giardino del Luxembourg, dar da mangiare agli anatroccoli del parco MontSouris, scambiare qualche parola con persone nuove, sconosciute. Se rientrano a piedi, alimentano queste modeste speranze fino al portone di casa – la scala, scura, è uno spegnitoio per le ultime vampate dei loro desideri proibiti – e una piccola fiamma palpita ancora quando infilano la chiave nella serratura. Entrano, annunciano: Eccomi… E subito una voce li informa dei fatti avvenuti in loro assenza (disastrosi, tutti), di coloro che hanno telefonato (per questioni spinose, noiose), delle incombenze che li attendono: Devi fare, Bisogna che tu faccia, Occorre, È necessario…, e le ultime luci della sera sono così belle, e la rondine, sola, libera, riempie di gioiose grida il cielo, mentre essi dicono: Va bene, Lo farò, Farò tutto subito… e si dicono: Sono in trappola.”.
È un mondo che vacilla ma con dignità indifferente, che si racconta mentre si trasforma ambiguamente davanti alle menzogne svelate, senza perdere quel ritmo frenetico del tempo moderno che anche di notte fa turbinare le figure sfocate in un paesaggio urbano dove le lancette rincorrono la speranza di nuove albe.
La notte avanza: ogni quarto d’ora, la campana dell’oratorio batte sommessamente. “Quante volte ha suonato Saint-Germain, Jackie?” “Tre. Le otto e tre quarti”. “Il tempo mi perseguita; anche se impegno l’orologio, ci sono le campane, i tocchi… Non posso nemmeno rimanere seduta tranquillamente al caffè: questi appuntamenti, questo correre su e giù che mi sfinisce… Tutte le sere mi auguro che Bruno non sia libero, che abbia una chiamata urgente dall’ospedale.”
Non c’è una trama nel senso tradizionale, anzi dopo qualche decina di pagine si rinuncia a tenere a mente i nomi di medici e infermieri, camionisti, centraliniste, coppie di amiche, amici, amanti o coniugi, preti, pubblicitari, signore altolocate: tutti si affacciano alla lettura caoticamente, come emergendo da un sogno, sovrapponendosi e dissolvendosi e tessendo un arabesco intreccio di pensieri, sguardi, silenzi, monologhi interiori che talvolta si fanno dialogo, ma senza che si capisca bene chi parla, e a chi. Le forme espressive utilizzate si muovono insieme a Parigi, le parole salgono dalle strade e dalle stanze per vagare sulla città e poi perdersi nel frastuono del traffico.
“Sa, dottore, io non ho l’abitudine di indugiare in strada, ma quando mi succede, come stasera, comprendo perché tante persone che vivono… normalmente, diciamo, finiscono da noi. La strada li porta alla pazzia. Tutti si affrettano, corrono, ti guardano con occhi sprizzanti odio, aspettano i ristoranti, fanno la fine davanti al cinema, le stazioni di taxi…”
La narrazione è arditamente coraggiosa, scorre senza argini e punteggiatura, travolge senza sosta restando tuttavia chiara nel suo srotolarsi incessante, limpida nella sua profondità. Si è deliziati da una assortita varietà di verbi e sinonimi, è evidente la ricerca puntuale di parole precise, la volontà di una grammatica che si piega alla necessità del sentire, non della regola: si legge con un affanno che non è smarrimento ma sorpresa e ci si costringe a fermarsi per riprendere fiato e pensare a ciò che leggendo ci ha trafitto inciampando in una frase, in uno scambio, in una descrizione. Un po’ intontiti ci rendiamo conto che quello che sta accadendo in questa notte è la ricerca a tratti disperata di qualcosa in grado di cambiare l’esistenza, innescata dalla tensione di un passaggio: dalla sera alla mattina, dall’inverno alla primavera, dalla vecchia alla nuova generazione. Ci viene restituita anche olfattivamente l’aria carica di primavera imminente, che fa presagire di risvegli e rinascite mentre si lasciano nelle auto i cappotti grigi e i cappelli: ci ritroviamo in una caleidoscopía che contiene i sofferti dualismi umani, voci struggenti che dicono il dolore, amori che sono sconfitte, desideri che si tramutano in perdite, sogni che si infrangono sul selciato umido, smarrimenti e solitudini e la voglia di lasciare un qualunque segno, una traccia.
Tutto insieme, in una notte. Dolore e bellezza.
Nel buio della notte è un romanzo che può confondere, troppo sperimentale, si è detto, troppo scarno, non dice esplicitamente, conserva fino all’ultimo rigo una obliquità che sfugge a tutti i confini, temporali, sintattici, emotivi.
Ma scava. E lo fa portando alla luce della coscienza del lettore intontito una verità mai ovvia: una notte qualunque può essere la notte in cui ci si ritrova a sentirsi vivere.
“È l’ora in cui il giorno si confonde con la notte, prima che l’uno si allontani e l’altra scenda sulla terra: veli d’ombra via via più spessi appannano la luce; e quelli che sono in strada provano il desiderio, insensato, di durare, unito al rammarico di sapere effimera quell’ora carica di dolcezza. Uno struggimento di cui non sanno precisare le cause – che sia soltanto il fatto di esistere?”
Emma Cannavale
E tu cosa ne pensi?