Numero 18 | Marzo 1999

I pensieri fluiscono, si intrecciano, si allontanano, si evitano, aleggiano nella sala piena di gente del salone del signor Merten e mentre si dispiega la quotidianità nella conversazione, il poeta e drammaturgo Heirich von Kleist e la poetessa Karoline von Gunderrode rinnovano il loro sentirsi lontani, distaccati dalla realtà che li circonda, da un mondo che li soffoca e li esclude. Sono un uomo e una donna, solo questa la differenza, entrambi delusi dal mondo e in quel mondo costretti a vivere, per vie diverse giungono allo stesso desiderio e necessità di morte, per porre fine alla sofferenza che provano e che gli altri sembrano non capire. Si incontrano senza conoscersi e i loro pensieri, i loro sguardi si inseguono tra le conversazioni degli invitati, danzano, quasi, una musica che altri non sanno udire, si studiano, cercando di restare nell’ombra, preferendo il silenzio, allo scontrare la loro differenza contro il muro di una società fatta di regole ben precise da rispettare, di imperativi a cui sottostare.

Lui è un viandante senza meta e senza pace, ha girato l’Europa, ha combattuto per la sua patria e i suoi ideali, ma «dove io non sono, lì è la felicità» pensa, e questo basta a farlo sentire incompleto e impotente. Soffre del vivere in un mondo che non gli appartiene, che gli è estraneo: guarda gli uomini che lo circondano e si meraviglia di come sia facile per loro semplicemente esistere, nella ferrea sicurezza della Ragione e negli imperativi della Restaurazione. Kleist, invece, vive il risentimento verso una società che ha deluso gli ideali della libertà, che, dopo la fallita rivoluzione bonapartista, ritorna velocemente entro gli argini della tradizione e diventa repressione di tutto ciò che è diverso, fuori dagli schemi.

Sa di essere malato, poiché ogni emozione, ogni espressione della vita gli toglie le forze. Ogni pensiero di sé lo rende triste e invidia l’uomo che sa essere brillante in società anche se superficiale, anche se legato alle convenzioni, che lui proprio non riesce ad accettare. E questo è l’eterno dilemma del poeta: seguire i propri ideali, incurante del mondo esterno, anche a costo della vita, o umiliarsi e cedere alla forza della società che impone regole, leggi e costrizioni? Non c’è scelta perché il mondo dell’ideale e quello del reale in ogni uomo si fondono ed è proprio nella società concreta che le aspirazioni di ognuno possono trovare realizzazione o fallimento.

La profonda sofferenza di Kleist gli viene dal non vedere soluzione alcuna, se non la morte, al dislivello che esiste nel suo mondo tra ciò che vorrebbe (l’idea) e ciò che è (il concreto). È un bene, invece, secondo il credere comune, che il regno delle idee resti separato dalla realtà o tutte le fantasie degli uomini potrebbero realizzarsi (e non è forse questo il desiderio di ogni essere umano?)!

Resta un’isola alla deriva in un mondo che non lo capisce e che non riesce a capire, osserva gli uomini e la donne del suo tempo. Possibile che non sentano quel peso sul cuore, che non si sentano malati, possibile che non provino quel senso di impotenza di fronte alle «forze che sanno navigare in tutte le acque e anche nel sangue»?

Lei è una donna soffocata dal ruolo che la società le ha imposto, che a suo modo si dibatte in tali vincoli estraniandosi dal contesto in cui vive. Si rende altera, allontana gli altri con i suoi sguardi freddi, si finge superba pur di preservare se stessa dal mondo. Il suo animo, invece, piange le catene imposte ad ogni donna del suo tempo, che le vietano di esprimere con la poesia i suoi turbamenti, che le impongono di tacere l’amore straziante che prova per un uomo che neanche la comprende e la deride. Ed allora la sua scelta è mille volte più coraggiosa, perché invece di rinunciare, Karoline indossa una maschera da uomo per poter pubblicare le sue poesie, nasconde un coltello nella borsetta perché sente di dovere smettere di vivere prima o poi, vivere entro una società dove le donne non hanno diritto al pensiero, ma solo alla procreazione.

Ma l’eccentricità, che la caratterizza, non trova posto nel mondo che la circonda e per questo non può che desiderare di essere un uomo, per poter partecipare alla vita, per poter smettere di essere solo un oggetto, gestito, curato, modellato da tutta una serie di uomini, padri, fratelli, mariti.

Rivive in lei il desiderio, comune a tante donne della storia passata, di avere il diritto di vivere la propria esistenza, di poter esprimere il proprio essere, così diverso dall’uomo e di poter mostrare a tutti la profondità dell’animo femminile in una storia di secoli fatta da uomini. Ma il peso del mondo è troppo greve. La consapevolezza che «in nessun luogo, da nessuna parte» c’è un posto in cui vivere, la schiaccia. Solo la morte porrà fine ad una lotta che non è mai iniziata, e che è già stata persa. Combattuta tra il rispetto che deve alle regole sociali, e che le impedisce di dichiarare il suo amore, e tutto il mondo di sentimenti, pensieri e desideri, che animano il suo essere, finisce per non scegliere nulla, né la lotta contro una società che disapprova, né l’adattamento (= repressione di sé) a quella società. Anche lei, come Kleist, resta in bilico tra un mondo ideale e uno reale, non riuscendo in alcun modo a fonderli.

Kleist e la Gunderrode si incamminano da soli lungo il Reno, che accompagna i loro discorsi e in un momento, al tramonto, i loro corpi e le loro anime si sfiorano e velocemente si separano, ognuno chiuso nel suo dolore della vita. Esseri simili che pensano la felicità impossibile e non vogliono accontentarsi di quello che la realtà offre loro, aspirano a qualcosa di più. Che fare, allora? Rinchiudersi in se stessi e lasciare il mondo fuori? Lasciarsi schiacciare dalla società o cercare di cambiarla?

Al di là della lirica tragicità delle esistenze di Kleist e Karoline, il libro di Christa Wolf sembra mostrare l’impotenza dell’uomo di ogni tempo di fronte alla forza della società, incurante dei dolori, dei dubbi, delle paure del singolo, di una società che crea dei ruoli precostituiti e pretende che ognuno di noi occupi il suo loculo in silenzio. Chi di noi non ha provato quel senso di inadeguatezza verso gli altri, chi non ha pensato almeno per una volta che il mondo, lì fuori non è proprio come ce lo aspettavamo, chi non ha desiderato rompere le catene per essere semplicemente se stesso?

Heinrich e Karoline hanno scelto la morte come soluzione, hanno preferito non essere più, piuttosto che essere come gli veniva imposto, ma il profondo senso di angoscia che li anima (e che caratterizza tutto il libro) dovrebbe invece scatenarne la ribellione e non la muta rassegnazione. Si prova una grande rabbia nel vederli perire dei loro stessi dolori, chiusi in se stessi, tanto da non accettare lo spiraglio che si offrivano nella reciproca comprensione. La sensibilità d’animo, la profondità di spirito dovrebbero essere una base su cui costruire e non lava bollente in cui sprofondare.

Teresa Zitarosa 

«Sollievo micidiale: credere a quel che si dice e venir straziati da quel che si crede

 

In  libreria

Nessun luogo. Da nessuna parte di Christa WolfChrista Wolf
Nessun luogo. Da nessuna parte
E/O, 2013
Collana: Tascabili E/O
Traduzione di M.G. Cocconi, J.M. Sobottka
115 p., brossura

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Da leggere: un approfondimento su Christa Wolf di Anna Bertini