I due brani Corale e Serenata per intonarumori e strumenti dei compositori futuristi Antonio e Luigi Russolo mettono in dialogo una sinfonia tradizionale con delle ondate di rumore, provenienti dai nuovi strumenti progettati da Luigi Russolo. Questo contrappunto esemplifica a livello sonoro l’obiettivo del futurismo, che confida nel rumore della civiltà meccanica per sovrastare la mite cultura del primo Novecento. Circa un quindicennio prima della registrazione di Corale e Serenata, nel 1905, Aldo Palazzeschi stampava la sua prima raccolta poetica, I cavalli bianchi.

Tramite questa raccolta – autopubblicata dall’autore – Palazzeschi si fa osservatore della prima crepa che si sta formando all’interno della cultura del secolo appena avviato. Le poesie descrivono un ambiente rurale: costituito da orti, piccole case, anziane figure e chiese. La campagna toscana, costellata di cipressi, ha un substrato culturale magico e religioso, chiaro fin dal primo componimento: «Laddove le vie fan crocicchio / poggiata a un cipresso è la Croce. / […] La gente passando si ferma un istante / e sol con due dita toccando leggero quel legno / fa il Segno di Croce» (La Croce). Tutte le figure che compaiono all’interno della raccolta sembrano statue, bloccate per l’eternità nello stesso movimento: le figure di Ara, Mara e Amara che giocano a scacchi; Il figlio d’un Re che cammina lento in giardino; La figlia del sole che aspetta sulla soglia. L’unico movimento possibile è quello della folla camminante, che di tanto in tanto si volta a osservare quelle strane figure: ma anche questo camminare implica sempre un ritornare sui propri passi, si può perpetuare solamente all’interno di un mondo chiuso e circolare.

Sebbene l’ambiente descritto possa rimandare alla poetica di Pascoli, e il tono dimesso delle descrizioni colleghi Palazzeschi ai crepuscolari, le venticinque poesie de I cavalli bianchi hanno alcuni tratti caratteristici che divergono da questi modelli: l’uso del verso libero, la mancanza dell’Io poetico, la ripetizione (di singole parole o di interi versi), l’ironia. Questi elementi concorrono a creare un effetto di distanziamento del poeta dall’oggetto poetico, e al contempo segnano la novità e l’irruenza di quest’operazione poetica. Palazzeschi, come si è detto, riprende elementi della poesia precedente e contemporanea, distanziandosene innanzitutto da un punto di vista formale: l’uso del versoliberismo, caratteristica che lo porta a essere rifiutato da tutti gli editori del tempo.

Ma sono soprattutto le altre tre peculiarità stilistiche del primo Palazzeschi a evidenziare la frattura tra il poeta e il proprio tempo. La mancanza dell’Io poetico all’interno delle poesie rende Palazzeschi un osservatore, un cronista di un mondo che vive all’interno di una continua ripetizione, incapace di rinnovarsi. Questo eterno ritorno del presente è evidenziato tramite le ripetizioni dei versi (talvolta di poco alterati, per esempio con inversioni di parole), che hanno da una parte un effetto ludico, mentre dall’altra rimarcano l’incapacità della poesia del primo Novecento di accogliere le novità tecnologiche e filosofiche. Personificazione di quest’idea è l’anziana signora de La casa di Mara, che seduta nell’ombra guarda passare i treni – simbolo per eccellenza della modernità – mentre mesta continua a filare: «Seduta nell’ombra dell’alto cipresso / sta Mara filando. / La vecchia à cent’anni. / E vive filando in quell’ombra. / E i treni le corron veloci davanti / portando la gente lontano. / Ell’alza la testa un istante / e presto il lavoro riprende. / E i treni mugghiando s’incrocian / dinanzi a la casa di Mara volando. / Ell’alza la testa un istante / e presto il lavoro riprende».

Il poeta fa irruzione all’interno dei propri versi solo nella terza raccolta, Poemi (del 1909), in cui confluiscono componimenti delle prime due raccolte. La poesia di apertura è Chi sono?, e la domanda riguarda proprio l’identità dell’autore, innescando una riflessione sul proprio ruolo. Ne risultano tre parole chiave: «follia», «malinconia» e «nostalgia». E non a caso è proprio il comparire della prima di queste parole a segnare lo scarto con i suoi contemporanei, ed è quella che fa di Palazzeschi un apripista del futurismo (il cui manifesto verrà pubblicato due anni dopo). Nei Poemi, oltre a riprendere gli elementi già presenti ne I cavalli bianchi e in Lanterna (del 1907), l’autore esplicita la propria funzione ludica e al contempo rivoluzionaria. Un esempio è la distorsione del mondo – contrapposta alla semplice registrazione – attuata ne I prati di Gesù, poesia in più sezioni che, partendo dalla descrizione di un prato, in ogni parte ne rimaneggia i confini. Il prato è «in forma di triangolo / rettangolo / un cipresso per angolo» (II), ma subito dopo si fa «quadrato / cento altissimi cipressi per lato» (III); è pieno di «irsutissimi stecchi, / arbusti decrepiti con sole spine, / alberi dai rigidi tronchi vecchi» (VI), ma al contempo è «fiorito! / dai più dolci colori colorato! / Da tutti peschi in fiore cosparso» (VII); ha nel mezzo «un ricchissimo inginocchiatoio / ricoperto di broccato» (VIII), ma è anche «un prato sterminato / che nel mezzo è tutto vuoto» (IX).

Nella penultima poesia di Poemi, La finestra terrena, il poeta descrive il processo che lo porta a comporre versi. Il suo passatempo preferito, l’attività cui talvolta non riesce a resistere, è quello di «vedere il mondo girare». Anche in questo caso, Palazzeschi siede immobile come un personaggio distante, e si ferma a guardare quel mondo chiuso – gli abitanti di una «vecchissima / città di provincia» – camminargli davanti. Il poeta si fa cronista di quella miseria che, «stampellando piruettando», cerca in ogni modo di «passare inosservata». È la miseria di un mondo che vive ogni giorno la propria fine, un mondo da cui il poeta si discosta, contrapponendogli – come nei componimenti dei fratelli Russolo – il boato della modernità.

Enrico Bormida