Questa è la mappa concettuale di Elias Fink, un ragazzo concavo e, al tempo stesso, convesso, l’ultimo anello di una catena maschile di tre generazioni di italiani di fede ebraica che va dalla Volina, dallo shtelt di Singer, a Ferrara, alle case borghesi descritte da Bassani, e prisma di una densa riflessione identitaria di ricupero di quel senso di ebraicità di cui il ‘900 è stato coinquilino, secondino e memorialista distratto.

Elias vuole fare a meno dei genitori, vive infatti lontano e si mantiene suonando su un cubo, in un singolare contrasto, il flauto traverso, dopo il diploma al Conservatorio, affiancato da ragazze immagine nei locali notturni abitati da musica elettronica assordante, cercando di inserire le sue note in una vertigine di suoni che annulla chi li ascolta e li allontana dall’oggi, in uno stordimento generale che manda in esilio il pensiero.

Ma, ogni volta che scende da quel ‘piedistallo’, intercetta nella sua memoria i racconti della nonna, vestale di una famiglia ebraica, i Fink, legati a doppio filo con i Bassani e, insieme, alla città di Ferrara e alle sue storie. Drappelli di immagini lo osservano e lo interrogano, cassetti con doppifondi chiedono di essere aperti, voci vogliono essere ascoltate. Il tutto si coagula così nella sua testa che si stipa di interrogativi. Il primo dei quali è: cosa vogliono da lui tutti questi antenati, tutti questi fantasmi, tutti questi ieri, da un ragazzo che, in fondo, si considera nient’altro che un mediocre che vegeta, anziché vivere, e che sa di essere un mezzo ebreo?

E allora Elias capisce di essere parte di una melodia lontana e confusa che non è quella delle discoteche.

Come capisce che, con la scomparsa delle generazioni precedenti, inghiottite da Auschwitz o da altre scelte di vita, quelle più giovani, di cui lui rappresenta l’ultima fermata, l’ultimo testimone, devono in qualche modo farsi carico della memoria di quello che sono per non perdere le memorie degli altri, per risalire alle proprie radici guidati dal sentimento della mancanza. Che è anche, prescindendo dal contesto ebraico di queste pagine, un esercizio che tutti dovremmo fare perché si è sempre figli di chi ci ha preceduti. Si può tentare di dimenticare, di guardare altrove – in fondo è quello che Elias fa tenendosi ben distante dalla storia della propria famiglia – ma ciò che siamo oggi non può prescindere da chi discendiamo. E spesso, si pensi a Günter Grass, certo, con motivazioni diverse, il passo del gambero non è solo un ritrarsi ma è un camminare all’indietro e di lato per guardare in faccia il proprio passato e ridargli significato. Un passato che non è poi del tutto passato, è di altri ma non altro da sé, che lo porta a prendere posizione, a riscattarsi come uomo e come ebreo ritracciando una propria solida identità con cui ancorarsi, il più possibile, al reale.

Nomen omen. To fink in inglese significa: spiare e anche fare la spia se con quest’ultimo termine intendiamo il riferire agli altri ciò che si è scoperto. Ed è quello che fa il nostro protagonista: cerca la giusta distanza dall’ombra per catturare il dedalo di esistenze, di cui è una via, in una narrazione intermittente, intrecciata da resoconti parziali, grappoli di storie e controstorie, dimenticanze, devianze e aporie. Con un bisnonno che, fuggito a Gorizia dai progrom russi, pensava di commerciare in acciaio ma poi è diventato un noto cantore in sinagoga, con un nonno che viveva e respirava Ferrara, la sua Ferrara, nella piena assimilazione prima e nell’ammassamento forzato a Fossoli, centro di smistamento per i campi di concentramento in Germania, poi, con un padre accademico, sposato con una donna cattolica, che, scampato alle leggi razziali grazie ai rifugi e sotterfugi della nonna, rivela un’identità ebraica ad intermittenza e mai pienamente postulata.

In questa operazione di ricupero Elias non è da solo in quella casa oramai chiusa in via Mazzini a Ferrara. Ci sono ombre che si allungano su di lui e chiedono conto a lui che non potrebbe essere ebreo perché tale stato si trasmette, secondo la tradizione religiosa, solo per via femminile. Tuttavia egli sente, con il tempo e con un lungo lavoro su sé stesso e di intenso e indefesso studio sui testi della tradizione ebraica, che può e deve inserirsi senza stridere, senza rendersi fastidioso, in quella concertazione complessa di cui è parte. Perché la musica non si è mai interrotta, perché non è mai troppo tardi per andare in scena con il proprio ‘io’.

Nel suo lento e irto appropriarsi di un pentagramma dimenticato o precluso è accompagnato da colori che possono essere diversamente interpretati e interpellati dal lettore. C’è il nero che rimanda agli infimi locali notturni dove transita ma anche a quello del lutto, non solo della nonna, che come Ulisse alla corte dei Feaci soleva raccontare al nipote le storie lontane della propria famiglia con quel «Devi sapere», ma anche a quello di figure risucchiate da un oblio proditorio e rapace e ad un’ombra che lo pedina ovunque e, in fondo, lo accompagna come se fosse non tanto un fantasma quanto un monito a non dimenticare e dimenticarsi. C’è il grigio dei muri e dei soffitti, un tempo bianchi, della casa di via Mazzini che chiama a raccolta chi l’ha attraversata, quello dei capelli che sono stati testimoni di un pezzo di storia d’Italia e quello della polvere padrona di gran parte delle superfici che danza alla luce del cielo che filtra attraverso le imposte. C’è il blu del mare osservato da una terrazza mentre Elias, nel tentativo di ricomporre parti di un puzzle familiare che diversamente rimarrebbe nella soffitta del dimenticato e dimenticabile, intervista il padre, restio a parlare del sé ebreo, sul passato della famiglia e poi quello dei cappotti scuri e cerberi che, durante una notte di soffiate, prelevano il bisnonno per portarlo in questura. C’è infine il marrone quando il corpo del ragazzo, in vista di una circoncisione tardiva ma necessaria, si ribella con esiti gastroenterici, come qualcosa che si rimescola dentro di lui per liberarlo, facendolo dibattere come un Eracle che passa da una dimensione all’altra.

Patrilineare. Una storia di fantasmi di Enrico Fink, con candidatura al Premio Strega e menzione del Premio Italo Calvino, raggiunge le edizioni Lindau, che lo hanno pubblicato da qualche mese, dopo un lavoro di trent’anni tra miniaturistica autobiografia e intensa ricerca storica. Sono pagine, scritte con parole meditate e pulviscolari, che si inseriscono in un impianto narrativo originale tra voci che narrano e l’espediente di una cinepresa che riprende chi parla, tra storie scritte e ancora da scrivere perché non si perdano, attraversando le ombre dell’incompiutezza e di un obbligo morale e documentale. È un libro di chi, come Elias, un parziale alter ego dell’autore, è stato il primo della propria famiglia a essere nato libero senza persecutori, è stato un ebreo non di esercizio ma di memorie e attraverso la sua voce le diverse generazioni continuano a parlare come un coro a bocca chiusa in una narrazione senza sosta. È un’esperienza di lettura dove, come in molte famiglie, ci sono sempre scalini grigi di pietra verso l’alto che si perdono nel buio, un corrimano di corda spessa da un lato per non cadere fino a un pianerottolo e a una debole luce che filtra sotto una porta di legno che chiede di essere aperta. E dove trovare l’equilibrio tra ciò che si ricorda e ciò che si dimentica.  

Claudio Musso

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