Con Per sempre vivi, Luigi Pellegrini Editore (2024), Alessandro Moscè si conferma una delle voci più vere e profonde del panorama poetico nazionale. Mario Famularo, che cura la prefazione alla raccolta, evidenzia felicemente come “l’esperienza della fine” sia “la cosa che più di ogni altra consente di tracciare il perimetro dettagliato del fragile e prezioso mistero dell’esserci”.

Tiziano Broggiato descrive l’opera di Moscè come “un percorso di vita e di poesia costellato da profonde rarefazioni, in cui si sovrappongono il fiato corto della possibile resa e la consapevolezza, poi, di una conquistata, fortemente voluta trasfigurazione”

La rarefazione di cui scrive Broggiato è, a ben vedere, una costante imprescindibile dell’opera di Moscè, che si cimenta, genialmente, in un lavoro lirico di rara intensità, pensato e coltivato in uno iato di sospensione tra la vita e la morte, tra ricordo e desiderio (che talvolta trasfigura in desiderio del ricordo), tra luoghi del passato e stazioni dell’anima.

Non c’è poesia degna di tal nome, che non spalanchi le sue ante all’infinito. I versi di Moscè aprono ad uno squarcio osmotico tra vissuto ed ideale, scorrendo sul filo impercettibile che unisce e separa immanenza e trascendenza, fiato corto delle cose e respiro universale.

Moscè traccia una rotta “nella nebbia che fuma e non svapora”, mentre l’amato nonno Ernesto (spolverino bianco/sporco di cenere volata dalla sigaretta/sospinto dalla brezza sfrattata di aprile) leopardianamente “imbruna”.

È una trama sottile che accarezza le “strade marchigiane/ tra chi cambia l’olio e i filtri alle utilitarie/ nelle stazioni di servizio fuori dal mondo”; che pervade il nascere ed il morire “più volte senza scongiuri/ fino all’alba”; che s’insinua nella donna che “intreccia le unghie tra i capelli/ e porta a spasso un sorriso, quel sorriso”; che rincorre “in una bolla, il bacio (…) destino di tutti i non amanti/ davanti al balsamo di una bocca / nella gravità dei refoli d’aria / dove non ci troveranno più”; che si volta assorta a rammendare “i quindici anni sui gradoni di pietra (…) la giovinezza perduta/ che si pasteggia in un piatto di vongole”; che attraversa il “mese in cui le parole tacciono sui marciapiedi”, fino a “sognare gli androni di provincia/ dove le patatine fritte morse in due/ cadevano tra il cambio e il freno”.

Bisogna fare i conti con l’infinito, per rimanere per sempre vivi: “Se abbasso il finestrino respiro il profumo dei tigli/ il rumore dell’onda sul grano tagliato”.

Sono versi intensi, inesorabili, che muovono da un proscenio empirico (il finestrino, il grano tagliato) per carpire la più acuta intimità dell’universo sensoriale (il profumo dei tigli, il rumore dell’onda). Ne deriva e si rivela un emisfero altro, oscillante tra essenza ed incorporeità, in cui, per dirla con l’Autore: “Siamo tutti sopravvissuti al rito delle assenze / nel mare dei cormorani fissi sul molo”, nel mentre “gli scomparsi si chiamano per nome / rotolati nella brezza di marzo / finché l’alba non rischiara le ringhiere”.

Un’opera che ha il pregio di commuovere, di emozionare: i gesti, i fremiti e i frammenti, talora nostalgici, di vita sparigliata, quasi dispersa o fuligginosa, su cui quasi nessuno tende a soffermarsi, divengono in Moscè le bussole iridescenti e catartiche di un percorso delicatamente visionario, notturno ma lucente quanto basta, che ricuce e riconduce alla vibrante eternità di affetti mai perduti (si pensi al legame dell’Autore con il padre, al quale è dedicata una bellissima sezione del volume) ed all’abbraccio ideale coi miti dell’infanzia: quel Giorgio Chinaglia, eterno campione con la maglia celeste della Lazio, che usciva “dalla radiocronaca sommessa” del poeta “per il germoglio della guarigione” (privata, ma, a ben vedere, del mondo intero).

Così “per sempre vivi” non è soltanto l’approdo poetico di un percorso personale, intimo e sofferto, ma è un’opera che si nutre della brezza di un anelito inatteso; un vero e proprio invito all’immortalità, che si concreta e luccica nella maestosità purissima di versi – piantati come semi tra i non luoghi dell’anima e dei ricordi – che ogni volta sanno come riportarci a casa – assieme a Moscè – con i polmoni colmi di fiato, “con gli occhi di un merlo”.

Francesco Potenza