Stupidi e contagiosi, il romanzo generazionale

Diceva K.C. che sognava la solidarietà tra tutti i giovani del mondo. Qualcosa che legasse la nostra generazione, capisci?”Solidarietà generazionale.”
Le avventure tragicomiche dei ragazzi Stupidi e contagiosi fanno sorridere (tanto) ma solo se si supera la propria soglia della fantadolescenza, altrimenti l’alone di nostalgia canaglia vi si incollerà addosso per tutto il tempo di lettura. Del resto è anche per questo che i romanzi “di generazione” hanno così tanto successo tra il pubblico: ci ridanno quello che abbiamo perso.
In questo caso la spontaneità, il casino dentro e fuori e, soprattutto, quel set privilegiato che la vita dà e la vita toglie: la scuola. Ed è proprio nelle aule scolastiche che la voce dell’autore dà il suo massimo: una voce schietta e pura anche quando intrisa di citazioni, motti sarcastici e di tanto adorabile disagio esistenziale. Da manuale di scrittura sono le descrizioni dei professori e non da meno quello dei compagni di scuola, di tutti i personaggi “stupidi e contagiosi” che ci fanno compagnia in 300 pagine di goliardia esistenzialista. Quando si termina la lettura non ci sono grandi speranze, non ci sono grandi aspettative ma resta una voglia matta di ritornare tra quelle pagine e stringere la mano a tutti i ragazzi e le ragazze che le animano, perfino ai professori e ai genitori, per ricordarci tutti insieme che si cresce come si può. L’importante è non smettere mai di “Innamorarsi. Almeno una volta al giorno. Per tutta la vita.”


Tettagna, scrivere il corpo

Siamo state inseparabili tutta la vita, io e Filomena. Lei a differenza mia è sempre stata una faticatrice, non le ho mai sentito dire “sono stanca” o “non lo posso fare”. Forse proprio per questo suo piacere pratico del fare lei non è rimasta fregata dalla vita, correndo appresso alle fantasie dell’amore come ho fatto io.”
Tre generazioni di donne raccontano l’amore e la morte attraverso il filtro magico dell’invenzione narrativa, affidata a un sortilegio, parente della superstizione popolare, secondo cui a Tettagna le donne hanno un potere e questo risiede nel corpo. In particolare nel seno. Con la leggerezza di chi conosce l’animo femminile, nella buona e nella cattiva sorte, Patrizia De Luca con Tettagna esordisce per la casa editrice e/o, scrivendo una storia amabile anche per le connessioni involontarie con la tradizione fantastica della letteratura di Anna Maria Ortese (L’iguana, in particolare) e della collega di casa editrice Ferrante. Con quest’ultima De Luca ha un debito affettuoso di preziosa riconoscenza letteraria, non tanto per le assonanze con la nota tetralogia ferrantiana. Il corpo racconta, scrive, decifra, intorpidisce, genera, si lacera, vive quasi al di fuori dei personaggi. È più importante della loro umanità, è ciò che li rende semplici e insieme tremendamente pericolosi. Il corpo in Tettagna è il motore iniziale del racconto, generato dall’amicizia storica della protagonista con Filomena che, a differenza di Assuntina, è diventata signorina prima di lei. Perché non è importante aver capito Tettagna ma averci vissuto dentro, perché la lettura conduce in un altro posto, nel mondo del libro e si desidera restarci, far parte dell’incantesimo.


La malapianta, scrivere le radici

La vedevo adesso la terra, distintamente, non quella massa oscura e confusa che appare sempre a distanza, ma in tutti gli elementi che la compongono: il giallo del tufo, le carcasse grigie dei vermi, miriadi di invisibili radici sottili e tremule come bave di ragno, e il marrone di quella pasta densa e terribile che chiamiamo terra. Infine sentivo il suo odore caldo e rassicurante, antico e lacerante come una ferita, il suo odore, come un lungo mormorio, triste e desolato.”
Quando ho letto l’esordio, nonché l’unico romanzo, della scrittrice, poetessa e intellettuale salentina Rina Durante, La malapianta, subito mi è venuta in mente questa lezione ancestrale sulla scrittura delle proprie radici. Non è un caso che la scrittrice operò con fermezza per la riconquista e la legittimazione delle questioni meridionali, edotta dagli studi di Ernesto De Martino, fondò il Canzoniere Grecanico Salentino, insieme con Giovanna Marini. Il romanzo è stato recentemente ripubblicato dalla casa editrice otrantina AnimaMundi, ma risale a diversi anni fa. La prima edizione, pubblicata da Rizzoli nel 1964, valse all’autrice il Premio Salento (in giuria anche la Maria Bellonci dello Strega) e suscitò scalpore tra gli intellettuali dell’epoca, tra cui Elio Vittorini a cui la Durante si era affidata per rimaneggiarlo dopo la prima stesura. È un romanzo poetico, magico e straordinariamente crudo. Le radici che racconta hanno il “fiato maligno”. La malapianta, a cui fa riferimento il titolo, è la famiglia Ardito, protagonista della storia, negli della Seconda Guerra mondiale, in un paese salentino, Melendugno, un luogo abitato da poche anime che stentano a risorgere e che forse non ne hanno alcuna intenzione. Ma niente a che vedere con i vinti di scolastica verghiana memoria. Gli Ardito hanno nelle vene il sangue dei reduci da una guerra personale e invincibile contro il loro destino. Che siano poveri, come gli Ardito, o ricchi come altri comprimari che gli girano intorno, i personaggi della Durante sono talmente moderni da assomigliare psicologicamente, e in un certo senso anche antropologicamente, agli inetti sveviani, alla generazione zero attuale fino a confondersi con l’alienazione dei millennials, significativamente compromessi dalla vita virtuale.


La vita involontaria, il romanzo di formazione

Desideravo mettermi in cammino, un giorno o l’altro, senza alcun bagaglio, e vagare a caso per il mondo, mangiando ciò che capitava e dormendo nei prati e sotto le pensiline delle stazioni. Fare il vagabondo, insomma.”
Raccontare una vita, anche non nostra, deve essere un’esperienza narrativa il più possibile vicina alla finzione letteraria. Per questo il romanzo della Carafa è prezioso, a cominciare da quel titolo che man mano che si va avanti assomiglia a una elegante beffa: la vita involontaria è forse l’unica che il protagonista anti-eroe è disposto a vivere. E quante volte, leggendo un romanzo, ci siamo detti: le vite che non sono la mia mi assomigliano più della mia. Riscoprire questa scrittrice è importante per due motivi. Il primo perché la letteratura spesso è un ingiusto gioco delle parti, Brianna Carafa in vita ne è stata ingiustamente esclusa. Secondo motivo, che è pure un consiglio di scrittura, per imparare a guardare il mondo interiore di un personaggio attraverso quello esteriore. Come scrive con appassionata attenzione Ilaria Gaspari nella prefazione del libro: “La sorpresa di leggere La vita involontaria è stata grande: la scrittrice di cui non c’era modo di sapere quasi nulla, dalla prosa ipnotica, limpida e così classica, ci viene incontro come una vecchia, nuovissima amica; come quelle amiche che incontri  per caso e ti sembra di conoscere da molto tempo, anche se non è vero. Ma gli echi delle voci delle sirene, qualche volta, riescono a farci incontrare anche attraverso insondabili distanze, a farci riconoscere nella nebbia”.

Alessandra Minervini