“Nessun bambino poteva essere mio amico se prima non l’avevo battuto in una corsa”
(L M Alcott, Lulu’s Library)

Piccole donne non è solo un classico della letteratura per ragazzi (cosa vuol dire poi un classico: un libro che vince il tempo, quello che “deve” stare sullo scaffale della libreria, un testo imprescindibile? Per quali motivi, poi?). Ha piuttosto l’apparenza e consistenza di uno strano talismano. È una eredità che ci passiamo di generazione in generazione. Una storia di nuovi inizi che non sono mai troppo nuovi. Una strana eredità tutta femminile, tutta letteraria, in un utopistico matriarcato delle lettere. E le utopie (con corredo di megalomania e fanatismo) in questa storia sono un ingrediente essenziale. È un frammento della mia storia (di qualcosa che in qualche modo ha finito per aggregarsi intorno alla ninfa di me, il calco trasparente di un corpo precedente mai abbandonato del tutto) perché continua ad emozionarmi come tutto ciò che tocca quello che è conficcato dentro. È un pezzo della mia storia (“we are stories”, continua a scuotermi Salman Rushdie), peraltro così insignificante, che ho consegnato alle mie figlie (l’avrei consegnato volentieri anche a mio figlio ma, quando quel libro rosso corallo con le lontane ragazze raccolte in un pacifico déjeuner sull’erba mi è ritornato tra le mani, avevo già smesso di leggergli le storie della buonanotte). Un messaggio in codice. A ben guardare però quello che ho consegnato non è solo un frammento della mia pubertà e dintorni; ma piuttosto un pezzo della storia di mia madre. Quel pezzo esatto ed imprendibile che condividiamo io e lei. Su cui il tempo stringe eppure si dilata. Dove il tempo si rimesta su un pezzo di stoffa o sulla pagina.

Il libro apparteneva a lei. Chi glielo avrà regalato? Glielo avranno regalato sessant’anni fa per insegnarle ad essere una brava donnina, una brava piccola donna? Era questo il messaggio che quel romanzo doveva veicolare? Lei, mia madre, è stata capace di vederci altro? Di scorgere nella cartolina perfetta di quell’interno familiare di sacrifici, accudimento (tutto femminile) e un pizzico di ribellione, almeno l’ambiguità del messaggio, che poi è l’ambiguità dell’essere, di ogni esistenza, anche quella di Alcott. “I can’t get over my disappointment in not being a boy”, si presenta ambiguamente Jo, propulsandosi meravigliosamente in questa nostra era in cui l’identità non è più una definizione.

Mamma chi è Jo? mi chiede mia figlia. È Louisa May, vero? Chi era Louisa May? May è un nome che si ripete (anche se lei si faceva chiamare Lou), un legame, in una storia quella della scrittrice in cui tutto si costruisce attorno al legame, all’educazione ricevuta, alla casa a cui sempre ritorna, come una maledizione oppure benedizione. May come una delle sorelle più giovani, Abbi May, la pittrice talentuosa che si emancipa, vola via da Boston e dalla casa familiare per morire comunque troppo giovane; come Amy, una delle future protagoniste del romanzo, che è un acronimo di May. May come la madre, Abigail May, filantropa, missionaria civile, innamoratissima del marito, quando l’amore è una forma di abnegazione e quindi di annullamento di sé.

Qual è allora il messaggio che Alcott voleva trasmettere nonostante questo libro pare non volesse scriverlo, nonostante, raccontano, fosse stata invogliata a farlo dal suo editore banalmente alla ricerca di successi di vendita. Oppure sí che voleva scriverlo perché aveva bisogno di soldi per compiere la promessa che aveva fatto a se stessa molti anni prima: sollevare dai debiti la sua famiglia. Cosa c’è sotto la “pappetta morale” per giovani teste come definì con sarcasmo la sua opera?

È un messaggio di energie (preferisco a potere) quelle che stanno sotto alle parole, sotto a tutto ciò che sembra ma non è. C’è tutta la forza con cui Alcott si ribella alla normalizzazione, c’è tutta la forza e l’intimità con cui Alcott rigetta un destino tradizionale mentre in qualche modo ne sopporta il peso. Perché la forza emancipatoria di una storia (e di una vita) non sta solo nel plot, nel centro del racconto (un personaggio femminile a tutto tondo, la protagonista che si riscatta e con lei riscatta tutte noi oppure ci lascia insoddisfatte perché non ci va mai bene niente) ma nella periferia, ai margini della storia, fuori campo, nei legami che crea, nelle convinzioni che mette in moto. E questo è un legame che dura da centocinquant’anni.

Sarebbe allora ingenuo immaginare tutto quello a cui Louisa May Alcott, che non si sposava, non aveva figli, andava e veniva dalla casa di Concord, ha rinunciato per la famiglia, per accontentare tutti gli altri, soddisfare aspettative e pagare i debiti del padre. Per accudirlo fino alla fine, dopo avere accudito la madre, quando di quella donna energica e volenterosa non restava che una figura smarrita. Dopo aver cresciuto la nipote rimasta orfana (la sorella pittrice morì pochi mesi dopo essersi sposata), che si chiama come lei Louisa May ma che tutti chiamano Lulu; immaginare frettolosamente tutta la felicità a cui ha rinunciato per la scrittura, troppa, troppo poco riposo; sarebbe ingenuo chiedersi se sia stata felice e concludere che, oltre alla gioia masochista del dover far bene, sicuramente felice non lo è stata: pochi spassi e divertimenti e una morte prematura a cinquantasei anni, qualche giorno dopo la morte di quel padre così venerato, erano rimasti solo loro due a sostenersi, in un giorno qualunque passando senza troppo rumore dal sonno alla morte. Perché in quella forza che continua ad arrivarci trascinata dalle parole si è consumato tutto, semplicemente: ogni aspirazione e ambizione, ogni illusione e disillusione. “I fiori e i veleni”, come scrive Beatrice Masini. Chi è Jo, mamma? Chi è Louisa May? Jo è Louisa, vero?

All’inizio di questa storia c’è un albero nel giardino incolto di una comunità protohippy o protovegetarina. È il padre, Bronson, un utopista radicale, egocentrico pure e abbastanza fanatico (ce ne fa un ritratto perfetto Beatrice Masini nella sua Louisa May Alcott), ad averle portate lì le sue piccole donne, compresa la moglie, che per lui sicuramente non è niente di più di una piccola donna. Dopo aver fondato alcune scuole progressiste (la Tempton School a Boston che dirige assieme a due donne Elizabeth Peabody and Margaret Fuller), essere stato un educatore all’avanguardia, aver sperimentato il successo e il fallimento, si è lanciato in questa nuova avventura, senza pensare troppo né ai soldi né ai debiti, contando sull’aiuto degli amici (gli Emerson, David Thoreau) e, soprattutto, sul lavoro infaticabile delle sue donne. Un albero nel giardino di Fruitlands, una piccola tenuta fuori Concord. La vita nella comunità sotto la guida e disciplina del padre (la cui filosofia di vita Louisa May riassume così: “essere non fare”) è abbastanza dura, ma tra un compito ed un altro Louisa May corre nel bosco, a perdifiato, come una cavalla e mentre corre si lascia portare dai piaceri e i dispiaceri di quell’età in cui tutto deborda. Tumulto. Corre e lascia indietro quella casa diversa, dove le idee e i libri sono più importanti di tutto il resto, dove si dà ospitalità agli schiavi in fuga (sono tutti antischiavisti), dove l’orgoglio compensa la povertà, dove non c’è spazio per la vanità con i suoi ricami e crinoline, dove Louisa usa i nastri e gli stracci dei bauli per mettere in scena le sue Commedie tragiche, quella casa dove non c’è troppo spazio però neppure per l’infanzia. E si arrampica. È una scena semplice: un albero ed una bambina che si arrampica. “Come un maschiaccio”, avrebbero detto perversamente fino ad appena pochi anni fa (le parole erigono barriere). Del resto per Bronson Lou era “il suo unico maschio” (my only son). Le altre bambine, la maggior parte di loro, non lo fanno o presto smetteranno di farlo, di ricordarlo, e sarà come non averlo mai fatto. La guardano meravigliate da terra. Lassù, tra i rami che quasi tocchi il cielo, e il sole brilla e le vertigini e la paura di cadere ti rendono assolutamente invincibile e la felicità scoppia, è una prova di coraggio, una sfida istintiva. E se eri una piccola donna, quel gesto era ancora più sfidante. Tra i rami, lassù ci sono le parole dei racconti in cui lei è il personaggio abietto, il cattivo, il fantasma, la Regina di cuori. Quelle storie che nessuno vorrà (preferivano da lei la narrativa per ragazzi). Ma soprattutto c’è la volontà, quel tipo di volontà prematura che nonostante tutta la fragilità dell’età è capace di costruire un destino. I will, I will. Farò di tutto: scrivere, cucire, insegnare (mestieri assolutamente equivalenti) … di tutto per aiutare la mia famiglia, per aiutare mio padre. O piuttosto per aiutare mia madre ad aiutare mio padre. La madre che nel suo primo racconto lungo (Trascendental Wild Oats) è Sister Hope, “una bestia da fatica”. C’è l’amore che però non è solo la docilità e l’altruismo a cui educavano le bambine all’epoca o fino agli anni Settanta, Ottanta (il libro di Gianini Belotti). L’amore per il padre, la madre, le sorelle i nipoti di cui si occuperà, in una famiglia in cui il ruolo è di volta in volta definito e ridefinito dalla vita e i suoi accidenti (guerre, morti improvvise…). Quel tipo di amore che ti libera comunque mentre ti rimbocchi le maniche e ne sopporti tutti i pesi. Quell’amore amaro di cui non resta quasi niente quando le energie sono scivolate giù e ti ritrovi malata, sola, triste. Sì, restano i libri.

Con la saga di Little Women, Alcott mette le ragazze al centro di una rappresentazione del mondo da cui erano escluse. È un piccolo mondo, un microcosmo familiare, ma è anche l’America della guerra civile, del razzismo e del colonialismo feroci, quella guerra a cui le donne potevano opporre solo il lavoro senza riposo di cura e di assistenza sul campo come crocerossine (anche Louisa May partì come crocerossina, si ammalò di polmonite tifoidea e le tagliarono tutti i capelli). Ammiriamo Jo che vende la sua chioma per salvare la sorella Beth, la ammiriamo ancora, il suo anticonformismo mi esalta ancora, e ci identifichiamo con lei; finalmente non abbiamo bisogno del personaggio maschile con le sue prodezze per sognare un destino diverso. E anche se è vero che Josephine detta Jo è una “ribelle mite”, capricciosa, magari a tratti anche ridicola, che alla fine si lascia plasmare e normalizzare, quel sì su cui si chiude la sua storia non è mai remissivo. E sinceramente la sua forza mi sconvolge tanto quanto quella di personaggi molto più recenti come Bella Baxter del film Poor Things (è sempre e comunque l’eterna storia del diventare donna che a conti fatti è la possibilità di disimparare e imparare liberamente il piacere e il dolore).

May Alcott è un classico, un talismano, è un messaggio in codice, una staffetta che ci continuiamo a passare perché forse sotto tutta quella storia di fedeltà e legami -in cui non mancano inibizioni e soggezioni e valori, lieto fine, e la rottura degli schemi tradizionali si compie solo a metà- c’è una voce dissenziente, quella di Louisa May, dove il dissenso porta soprattutto energia e volontà. I will, I will. Perché quella forza intima su cui i sogni di Jo e di Louisa May si confondono, si arrendono ed in qualche modo imperfetto si compiono, è capace di toccare la fantasia di una giovane lettrice che comincia appena a capire quella cosa essenziale che è: da dove proveniamo. Poi circumnavigherà il mondo per tornare a casa. Di chi era il libro mamma?

Silvia Acierno