Anche a te ho dato un nome; scontato se vogliamo, chiamarti Pilota.
Da bambino ti identificavi piuttosto con l’aereo, volevi avere quelle caratteristiche strutturali di estensione e leggerezza che permettono di affidarsi all’aria, e di condividere con lei le leggi della fisica, la fascinazione dell’elevarsi, di stare nella dimensione più rarefatta. Così mi appariva la tua capacità di scrivere: dotata di caratteristiche strutturali perfette per affidare a chi legge contenuti umanistici profondi facendoli sembrare leggeri, rarefatti. Tra scienza e arte, tra luce e ombra, tra terra e cielo, in mezzo, dove le dicotomie hanno – in contemporanea – la superficie di taglio e il lembo di unione – lì c’è spazio per descrivere l’uomo, mappare il suo essere nella realtà.
La realtà che tu preferivi indagare ha una consistenza “porosa”, si lascia attraversare, si apprezza meglio di sbieco, con sguardo “miope”, è più fatta di possibilità che di risultato. È la vita di Bobi Bazlen che avendo vissuto in mezzo alla grande letteratura mitteleuropea non ha mai scritto un libro; è l’amicizia dell’anziano scrittore Epstein, che cerca “oltre la forma”, con il giovane scienziato Brahe, che studia le componenti energetiche della materia; sono le percezioni che arrivano a un non vedente nel museo di Reims; è il “perdersi in volo come ci si perde nella vita”, lo staccare l’ombra e riassorbirla nel moto; sono le “vite mediamente regolari” fatte ciascuna di una propria mania; e sono orizzonti alla fine dei mondi, taccuini e itinerari di esploratori, fantasmi che non afferri perché si muovono come pinguini, concreti e impalpabili[1].
“Tutta la mia vita, tutto il mio lavoro non è stato altro che raccordare le persone agli oggetti, e gli oggetti all’esperienza e ai sentimenti, alla percezione di sé, alle idee. Forse quello che ho inventato fin qui non è altro che una lente speciale, che permette di vedere lo sfondo e la figura nella loro relazione, in pari dignità. Lei da ragazzo sarà stato portato per la matematica, o per le scienze. Io ero portato per le persone. Me ne intendevo per istinto, come un animale. Scrissi un Atlante delle andature, la prima cosa che ho scritto, lo usavo come gli altri usavano quelli di geografia”. Questo lo fai dire a Epstein, in dialogo con Brahe, a pagina 66 di 🔗Atlante Occidentale.
È il libro che mi hai autografato e dove hai scritto una dedica, il giorno 3 marzo del 1996, l’ultimo in cui ti ho incontrato. Eravamo in treno verso una città, guardavamo dal finestrino mentre ci avvicinavamo alla stazione, come nell’incipit de 🔗Lo stadio di Wimbledon. Ci saremmo separati poi, tu per un cambio di binario e convoglio, io per prendere un bus per l’aeroporto.
C’era qualcun altro con noi, un giovane; un altro partecipante a quei fine settimana dedicati alle scritture brevi che avevi accettato di offrire; non si trattava di lezioni di scrittura, ci tenevi a precisare, anche se si svolgevano alla Scuola Holden. Proponevi indagini, percorsi, ci affidavi viatici. Portavi con te materiali disparati: carte nautiche, fotografie, partiture, cronografi. In treno eravamo seduti accanto, sentivo l’imbarazzo e la responsabilità di quell’intimità improvvisa con una persona che mi pareva tanto più “grande” di me, un senso di inadeguatezza che forse era, a pensarci bene, di per se stesso inadeguato, perché tu eri semplice e affabile, come la tua scrittura. Densa ma scorrevole, volta all’emozione, all’amicizia. Le cose di cui scrivevi ti erano amiche, e le presentavi come amabili, anche quando complesse e apparentemente difficili da affrontare.
Portai Atlante, e non un altro dei miei volumi, per l’autografo. Forse perché mi pareva il più importante; non era il primo tuo però, che avevo letto, ti avevo conosciuto con Lo Stadio. Non ti dissi che 🔗Staccando l’ombra da terra era stato invece il primo libro acquistato a Torino appena giunta nel ’94, sotto l’alluvione, e lo avevo scelto perché mi aveva fatto pensare a un libro letto per il diploma di tedesco, 🔗Flug di Reto Hänny.
Volevo prendere con me anche 🔗Una Volta di Wim Wenders[2], che avevo comprato in italiano perché ne avevi firmato la prefazione. Si tratta di un libro pesante, che amo molto, rinunciai per evitare ingombri in aereo. Lo avevo studiato nel dettaglio; un anno dopo ne avrei seguito gli itinerari in California, nel Nevada, fino alla Dead Valley. La tua prefazione ha un titolo potente: “Visionari di quello che c’è”, che poi è una frase ripresa da Atlante pure quella, pronunciata da Epstein. In quello scritto ti rivolgi all’autore usando il lei, parli con lui, imposti un dialogo coerente con il suo sguardo, coi suoi prosimetri scarni a lato delle fotografie.
“‘Una volta’ però è il contrario esatto del ‘corso del tempo’, e lo è anche nelle storie qui raccolte: non apre una fiaba, non preannunzia una storia compiuta né descrive un inizio o una fine, è piuttosto un breve ‘durante’, un tragitto da presente a presente. (…) Se il principio della fotografia è quello di mostrare che qualcuno o qualcosa ‘è stato una volta’, anche in questi suoi racconti vale il fatto che una volta quel determinato evento è accaduto davvero (…)”.
Ciò dici in quella prefazione.
‘Un tragitto da presente a presente’, lo divenne anche quel nostro viaggio. Fu ‘una volta’, e la dedica su Atlante Occidentale valse il fatto che “una volta quel determinato evento è accaduto davvero”. Noi siamo stati seduti accanto in un vagone, tu hai preso il mio Atlante Occidentale e ci hai scritto, con la tua calligrafia riunita e puntuta: Nella speranza che la voce che hai ascoltato in questi giorni non abbia ingombrato quella che parla in questa storia. Daniele del Giudice (in treno, 3 marzo ’96). È stata quella volta, l’unica e l’ultima, e non ho più avuto l’occasione di dirti che la tua voce non aveva ingombrato quella che parla in Atlante, il narratore che giustamente non desideravi far coincidere con te stesso. La dedica la lessi sul bus per l’aeroporto.
Non so dire di cosa parlammo per il tempo di una tratta ferroviaria, però ricordo bene che mi facesti una domanda, e io avrei potuto dirti che non sapevo rispondere, ma me ne vergognai. Era una domanda semplice e scontata, così mi appare oggi. Nel libro avevo il biglietto aereo, e tu chiedesti se il mio volo fino a Monaco di Baviera era operato da un jet o da un ATR. La risposta era nel biglietto, potevo mostrartelo. Dissi un jet, perché all’andata ero salita su uno di quelli. Sbirciasti il biglietto e capisti che mi sbagliavo. Ci salutammo rimandandoci ad altre occasioni, che non ci furono. Salii sull’ATR della Air-Dolomiti, e feci rientro alla mia vita di là dalle Prealpi. Ho sempre pensato di aver fatto una figuraccia, per via di quel numero di volo che non avevo saputo interpretare. Oggi penso che tu abbia sorriso dentro di te, benevolmente, e non abbia voluto dirmi che sarei salita su un ATR per non fare il saccente.
La mia vita avida di riferimenti culturali da curare non è stata sempre facile. Continui viaggi, che se da una parte mi hanno consentito di percorrere molti itinerari ‘letterari’ sulle tracce dei miei autori e libri preferiti, mi hanno impedito di essere continuativa nel rapportarmi ai maestri. I due più importanti siete stati comunque tu e Antonio Tabucchi, e il fatto che eravate buoni amici, e vi consideravate colleghi, mi ha dato la sensazione di aver ben scelto. Certo ‘starvi dietro’ non era proprio facile, con Tabucchi di più perché quando entrambi eravamo in Toscana le probabilità di incontro erano buone. Con te molto meno; mi ricordo una volta che desideravo tanto venire a Venezia per Fondamenta, il tuo festival, e riuscii ad avere un appuntamento in Teatro solo giorni dopo la chiusura della rassegna. Ho sempre avuto problemi a tenere un dialogo con voi due: troppo dubbiosa di meritare la vostra attenzione, troppo incapace di dirvi la mia ammirazione, sempre preoccupata di non suonare sincera, autentica.
Ti persi un po’ di vista per qualche anno. Persi molte cose di vista, dal 2004 in poi. Un giorno, quando ti fu conferito il Premio Letterario Europeo per Orizzonte Mobile, vidi una tua intervista in TV. Mi sembrasti invecchiato di colpo. Il tuo sorriso era più tenero, ma anche più duro. Facesti alcuni errori. Pensai alla stanchezza, o l’emozione. Mi venne in mente il mio errore in treno, quello sull’ATR. Poi non ti vedemmo più, nessuno di noi. La storia di quella malattia che ti ha preso nelle sue nebbie adesso la sappiamo tutti.
Tante volte ho riaperto Atlante Occidentale per rileggere la tua dedica. Sopra a quella, vergata con biro nera, ci sta una frase scritta da me con una stilografica a inchiostro blu: Chissà se i libri che compriamo ci sono destinati. Oggi, non mi interessa tanto sapere se un ‘libro’ fisico mi è destinato, con la sua carta e il suo inchiostro, quanto piuttosto conoscere in che modo certe scritture ci siano destinate quando le scegliamo, e quando le riconosciamo come fondamentali. E poiché le scritture hanno un autore, e una voce che parla, io sono certa che tutti i tuoi libri contenevano parole e tracce che erano nel mio destino. E questo è tanto più bello perché con te l’uomo e l’autore sono sempre stati coincidenti e le voci che narravano nei libri, non avrebbero mai potuto essere ingombrate, ma rafforzate. Con te tutto era tutto profondamente umano.
Di disumano, c’è stata solo quella malattia che ti ha portato via. Con una lente speciale, sullo sfondo di ciò che hai lasciato, vedo ancora la tua figura, in pari dignità, elegante, generosa. E mi fa compagnia.
Anna Bertini
[1] Il riferimento è alle seguenti opere di Daniele Del Giudice, in ordine: Lo Stadio di Wimbledon, Einaudi 1983; Atlante Occidentale, Einaudi 1985; Nel Museo di Reims, Einaudi 1988; Staccando l’ombra da terra, Einaudi 1994; Mania, Einaudi 1997; Orizzonte Mobile, Einaudi 2009.
[2] Una Volta, Wim Wenders, Edizioni Socrates 1993
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