In varie discussioni e approfondimenti tenuti in questi mesi, il primo elemento di evidenza che sento di dover condividere riguarda l’importanza che l’impatto degli eventi bellici esercita sulla scrittura. Lo scoppio di un conflitto, infatti, provoca un repentino cambiamento di stile in ogni autore, condizionando profondamente la produzione letteraria nonché la visione poetica.

In un passo di Ragioni d’una poesia, Giuseppe Ungaretti ha scritto: «[…] non può esserci stile, segno generale d’un’epoca nel segno particolare d’un singolo, senza una certa unità morale e senza una certa unità di cultura raggiunta nel mondo, sia pure per negazione o per maraviglia». Si potrebbe pensare che gli elementi di negazione e meraviglia a volte non siano tanto distanti perché entrambi partono dall’intenzione di voler osservare e rappresentare un certo fenomeno in una condizione differente. In poesia, più che in altre arti, emerge lo spirito profondo degli uomini e dei popoli, a mio avviso per due ragioni: i versi non possono fare a meno di un impianto linguistico, il quale a sua volta, si nutre di un retroterra culturale spesso antichissimo; la poesia stringe, inoltre, una forte relazione col canto e spesso nelle parole e nelle sonorità che si esprimono vi sono delle evidenti imitazioni musicali che vanno a rafforzare l’immagine o il concetto. Una rima, per esempio, non ottiene semplicemente la ridondanza del suono di un termine precedente o successivo, ma tende a rafforzare il fenomeno che si manifesta in un determinato componimento.

In qualunque epoca, l’arte cerca una forma per rappresentarsi. Sarebbe interessante rispondere alla seguente domanda: quali forme può assumere una poesia di guerra? Nelle varie epoche abbiamo avuto grandi poemi la cui storia si svolgeva all’interno di un teatro bellico, a partire da Omero, per poi approdare a opere fortemente impresse dall’esperienza di guerra, com’è avvenuto in tantissime pagine del Novecento, tra cui quelle di Federico García Lorca, Vittorio Sereni, Bertolt Brecht e tanti altri. Andrebbe considerata, inoltre, la coscienza che la guerra imprime nelle identità popolari e di conseguenza anche nei poeti del Dopoguerra. Sono temi inesauribili che non riusciremo a trattare in questa sede. A noi qui interessa evidenziare come tale tematica sia rilevante e quanta poesia sia irrimediabilmente pregna di eventi storici scanditi proprio dalle condizioni della guerra e della pace.

Tornando alla questione dello stile, un punto focale emerge nell’incontro con Marco Melillo, il quale si sofferma sulla poesia di Salvatore Quasimodo. Si delinea un’esigenza della coscienza poetica al cospetto dei grandi cambiamenti storici, nei quali la guerra rientra a pieno titolo. L’esperienza della Seconda Guerra Mondiale ha stravolto la poetica di Salvatore Quasimodo e ha parimenti inciso sullo stile insieme a un altro percorso di vita letteraria, riconducibile alla traduzione dei lirici greci. Si registra il passaggio da una natura contemplativa e arcadica a qualcosa di maggiormente concreto. «Rifare l’uomo» affermava il poeta di Modica, il che si traduce in poesia con una ricerca di forme, espressioni e “canti”, una chiamata alla concretezza dell’arte capace di rappresentare una nuova fase della storia. Citando un celebre passo scritto da Quasimodo: «Io non credo alla poesia come “consolazione”, ma come moto a operare in una certa direzione in seno alla vita, cioè “dentro” l’uomo. Il poeta non può consolare nessuno, non può “abituare” l’uomo all’idea della morte non può diminuire la sua sofferenza fisica, non può promettere un eden, né un inferno più mite […] Oggi poi, dopo due guerre nelle quali l’”eroe” è diventato un numero sterminato di morti, l’impegno del poeta è ancora più grave, perché deve “rifare” l’uomo, quest’uomo disperso sulla terra, del quale conosce i più oscuri pensieri, quest’uomo che giustifica il male come una necessità, un bisogno al quale non ci si può sottrarre […] Rifare l’uomo, è questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle speculazioni è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno.»

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Se le parole di Quasimodo sono frutto di una meditazione post bellica, avvenuta dunque in tempo di ricostruzione e di pace, nel mondo attuale le riflessioni che riusciamo a captare avvengono in real time. Ciò non mortifica lo stile, si tratta di un’amara constatazione dell’era iper-connessa nella quale ci ritroviamo. Esplicativa in tal senso è la testimonianza fornita dall’antologia 

Poeti d’Ucraina, edita per Mondadori, a cura di Alessandro Achilli e Yaryna Grusha Possamai. 

Nell’introduzione all’ultima parte di questa pubblicazione dedicata alla poesia ucraina scritta dopo il 24 Febbraio del 2022, i curatori dichiarano: «La poesia di questa sezione è tronca, insanguinata, documentaristica, quasi una riflessione intellettuale, pubblicata spesso su Facebook in reazione a un duro colpo, come nel caso dell’evacuazione di Irpin’ di Oleksandr Irvanec’, che riprende un’estetica volutamente arcaica, diversa da quella dei testi espressivi, forse terapeutici di Musakovs’ka e Amelina».

Il taglio civile trova dimora anche nella poesia di un altro poeta ucraino, Dmytro Chystiak di cui si è fatta spesso portavoce la poeta Laura Garavaglia. Nelle parole dell’autrice, la guerra è entrata nella vita del giovane autore ucraino in modo altrettanto dirompente. Stilisticamente si è tradotto in un accantonamento del simbolismo in favore di un verso maggiormente narrativo, storico, riflessivo. Il cambiamento dell’uomo coincide con quello del poeta, cosciente di vivere una fase tesa e cruciale della propria esistenza. Di queste trasformazioni oggi possiamo essere diretti testimoni, nel bene e nel male. 

La poesia trova in questa guerra una nuova risonanza e una nuova forma espressiva, non ha bisogno di reading o presentazioni per palesarsi, si trova in rete alla portata di tutti, come i video dei combattimenti, dei droni che volano sulle città distruggendo strutture militari e civili, delle testimonianze degli attacchi missilistici e delle fosse comuni. La guerra è cambiata così come la percezione dell’uomo che non credeva di dover rinunciare alla pace, anche se la sta cercando ancora nella fine del conflitto. Il poeta in modalità differenti continua a offrire il proprio canto spezzato da rendere al mondo. È una consapevolezza in divenire: alla luce di questa attualità il rifare l’uomo di Quasimodo potrebbe essere ripreso in una fase successiva, tenendo in considerazione che la posizione del poeta di Modica veniva comunque espressa dalla parte dei vinti e degli sconfitti. In Ucraina, al contrario, l’uomo sta resistendo e la scrittura è necessaria affinché testimoni la sopravvivenza. Vincitori o vinti è un dettaglio. La ferita è identitaria e la poesia continuerà a testimoniarne il dolore.

Federico Preziosi

Leggi la prima parte:
Poesie di guerra e di pace