Non esiste un tipo di donna: ne esistono molteplici, ognuna portatrice della propria storia e delle proprie ferite e quelle raccontate in Quel tipo di donna, edito da HarperCollins, scritto da Valeria Parrella, hanno un filo identitario comune: il potere di scegliere.
“Perché la libertà delle proprie scelte è un concerto di Carla Bley al Blue Note, mentre fuori la notte di Manhattan. È la striscia verde dell’aurora boreale intravista dalla finestra mentre stai stendendo una maglietta”. Col suo stile avvolgente e di impatto Valeria Parrella ci regala una storia breve e intensa sul mondo femminile e i suoi retroscena emotivi, rituali, tenuti insieme dal filo della sorellanza, come quella che lega le quattro protagoniste.
“Che in quattro facevamo due capricorno molto assertive e precise, maniacali e due gemelli solari, allegre, serene senza essere superficiali”: quattro amiche da una vita, quarantenni, raccontate in prima persona, nel loro viaggio attraverso una Turchia meravigliosa, durante il Ramadan.
Il viaggio è pensato come un attraversamento del dolore: il dolore più insopportabile, quello della perdita di un figlio. Una di loro, Dolores, ha perso la figlia diciottenne Saciko, a causa di una malattia e attorno a quella tragedia si riunisce il nucleo delle donne della sua vita: “Ognuna di loro dovette lasciare qualcosa a qualcuno, chiedere un favore a qualcuno, per partire in agosto per la Turchia come se fosse normale”. Passando attraverso le luci del Bosforo, le coste di Antalya, sino ai cammini delle fate, in Cappadocia, i cammini delle quattro donne divengono storie in movimento, figlie delle storie di altre donne che le hanno precedute e che hanno fatto scelte difficili, inusuali, coraggiose. Come nonna Elettra che si era sposata due volte e che ha voluto essere sepolta con una copia de l’Unità, la Renata, sfruttata sin da piccola dalla famiglia e che si ribella agli schemi patriarcali con un taglio corto dei capelli, Gabriella, rimasta senza madre a sedici anni, che aveva tirato su i fratelli minori e poi si era laureata in matematica, andando a insegnare in una classe di ragazze che non aveva mai visto il mare, pur avendolo vicino, Maria, una delle prime a lavorare all’Upim, uscire di casa già truccata.
“Noi eravamo quattro amiche, alla soglia di quel viaggio, ma in realtà con noi c’erano moltissime altre donne: un’intera comunità che principiava dalle nostre madri e dalle madri delle nostre madri. Donne che si erano battute per la nostra libertà anche quando ci avrebbero voluto prendere a pantofolate”. La sensazione che si avverte ad ogni pagina è quella di essere nel flusso protettivo della rete delle donne, quel tipo di donne, che attraversano la vita in tutte le sue asperità, tenendosi anche per mano: con l’amicizia, cioè l’amore nella sua prima forma”.
Il viaggio insegna a ciascuna di loro che la forza non è essere forti, ma comprendere quando non si può esserlo e quanto conta proteggersi, più che sfidarsi.
E come coltivare il proprio femminile, declinandolo in ogni modo, del resto, quando le quattro amiche visitano le sette moschee di Istanbul comprendono che le religioni non esistono più e si mischiano, tornando al loro principio compositivo che è celebrare ciò che c’è di divino nell’uomo, ovvero il femminino.
L’io narrante viene raggiunta anche da un messaggio inaspettato durante il viaggio: “quello che io volevo dire è che uno a cui io stavo pensando, ma che non avrei mai chiamato, mi aspettava”. E da quel contatto nasce una nuova storia nella storia, che ci ricorda come quello che deve arrivare, alla fine arriva. Come l’emanciparsi dai traumi della vita, liberandosi dei pregiudizi, camminando insieme.
Antonella De Biasi
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