Come si inizia a scrivere e a dire quando le cose sono molte, io davvero non l’ho ancora imparato.
Le frasi, le impressioni le sensazioni si accavallano sempre un po’ tutte, rendendo fitto e denso il campo minato delle idee.
Quindi inizio dall’inizio.
Sono trascorsi molti anni e molte primavere e molte acque sotto i ponti da quel 28 marzo 1941, quando Adeline Virginia Stephen più nota come Virginia Woolf, perseguitata dai tormenti interiori, si riempì le tasche di pietre e si annegò a soli 59 anni nel fiume Ouse vicino a casa sua nel Sussex. Il suo corpo fu ritrovato tre settimane dopo. Prima di morire, lasciò un biglietto a suo marito Leonard, dicendo:
“Carissimo, sono certa che sto impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo attraversare un altro di quei tempi terribili. E questa volta non mi riprenderò. Comincio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi faccio quella che sembra la cosa migliore da fare”.
I giornali dell’epoca non lesinarono critiche e cattiverie, affermando che il suicidio della Woolf fu in qualche modo un atto di codardia, piuttosto che una tragedia personale.
Quanto è facile avere opinioni sciocche, del resto, sono pieni gli scaffali delle memorie di ognuno.
Virginia Woolf è universalmente considerata una delle più importanti scrittrici del ventesimo secolo, fautrice del modernismo, pioniera dell’uso della tecnica narrativa del “flusso di coscienza”.
Legò la sua fama alla sua personalissima capacità di scrittura, ma anche alla riforma dell’istruzione, fino a diventare un’ icona negli anni ’70, grazie alle sue opere a sostegno della critica femminista. Diede voce a migliaia di donne che si sentivano abbattute, vulnerabili, e forse spaventate.
Ralph Thompson, critico letterario del New York Times, scrisse in un suo editoriale:
“Virginia Woolf è la perfezione più vicina quando si tratta del passato o di un presente che ha già cominciato a perdersi nel passato. Allora lei è davvero vicina alla perfezione”.
Virginia è piena.
Di cultura e di idee.
Le sue impressioni sulle cose e sul mondo, sul femminile e sul maschile che si legano e si slegano in un vortice furioso e complice, sono un insieme di cose ordinarie e banali.
Unita e lontana.
Qui c’è qualcosa di noi.
Ma anche più in là.
Virginia ha operato una rottura decisiva con la narrativa vittoriana ed edoardiana che l’aveva preceduta, creando una narrativa sperimentale che riguardava la forma e il senso. Cercò di rendere il romanzo qualcosa di nuovo e fresco, ad esempio, catturando la realtà come qualcosa di instabile, come la rivelazione dei personaggi, spingendo i confini per approfondire il più umanamente possibile il funzionamento interiore. Ha osservato la loro mente, offrendo ai suoi lettori una visione attraverso i suoi pensieri sulla vita, la realtà e la verità e li ha resi sinonimi di “spirito”. Secondo lei, uno scrittore doveva suggerire simultaneamente impressioni mentali e realtà esterna. La vera realtà può essere catturata solo quando entrambe le parti sono ben catturate dallo scrittore.
“Qui, come qualche volta ho immaginato, è davvero rimasto qualcosa di noi da cui è doloroso separarci. O forse siamo arrivati a un’età in cui le separazioni sono più gravose e gli incontri meno piacevoli? Tutto sommato preferisco pensare che ci siano buone ragioni per rimpiangere questa partenza più delle altre”.
Elementi sconosciuti ed esperienze indagate con la luce da scavatore si uniscono in questa danza tra ricordi, impressioni e scritti.
Perché ho scelto questi scritti?
Non lo so.
O forse sì e ve lo dico dopo.
Qui è rimasto qualcosa di noi è una selezione di diari giovanili, in cui la scrittrice racconta i viaggi compiuti tra il 1897 e il 1909. Si tratta di viaggi insulari, compiuti tutti in Inghilterra, alcuni dei quali insieme ai fratelli. Qui la nostra Virginia non esita a condividere i suoi pensieri più intimi, anche quelli più oscuri e tormentati. Quindi forse sì, si deve iniziare dall’inizio per capire non solo una storia, ma anche una vita.
Dall’inizio, per comprendere come si genere un’idea, un tormento.
Come vedere non è più solo vedere, ma è prendere appunti per guardare.
Rivoluzionare la scrittura è una cosa graduale.
E forse sì, si comincia dall’inizio.
In Qui è rimasto qualcosa di noi – Diari di viaggio in Gran Bretagna viene fuori il ritratto di una giovane donna alla ricerca di se stessa e,in particolare, alla ricerca della sua forma di scrittura, ma allo stesso tempo viene fuori l’anima di una persona differente da come le biografie ufficiali la ricordano. È un ritratto bucolico della “ragazza” Virginia Woolf che si estende come un pezzo di quella natura e di quei luoghi da lei raccontati con così tanta curiosità. Curiosità è forse la parola che meglio indica la sua figura; quello che si percepisce di lei è un ritratto antitetico: da un lato la fame di apprendere e di respirare quei posti, quelle esperienze, quelle visioni, dall’altro la malinconia dello sguardo verso le radici della vita, verso la disperata solitudine che quei villaggi, quei boschi, quel cielo sembrano trasmettere. E quello sguardo su quel mondo è nitido, preciso, al tempo stesso bucolico e disperato.
Lei che amava così tanto scrivere e riscrivere i suoi testi fino ad ottenerne la perfezione probabilmente non ha mai immaginato che queste brevi note sarebbero diventate oggetto di studio e pubblicate in numerosissime lingue. Come era lei, probabilmente, se fossero stati pensati per un pubblico sarebbero stati ricomposti fino a trovare la loro dimensione.
Ma quella dimensione qui c’è già.
Perché nella loro semplicità, redatti in apparenza frettolosamente, si percepisce il germe della sua maturità letteraria, della sua visione, sullo scorrere del tempo e sulla memoria, cui molto ricorda la malinconia e gli elementi di Gita al faro, nato proprio sugli anni dell’infanzia passati in Cornovaglia, luogo a lei molto caro, oggetto dello scritto principale di questo testo e redatto nel 1905, allora ventitreenne, nel quale conclude che “tutto sommato preferisco pensare che ci siano buone ragioni per rimpiangere questa partenza più delle altre”.
Virginia Woolf, la scrittrice del flusso di coscienza, la romanziera e saggista che tutti conosciamo c’è tutta in queste pagine. Note straordinariamente fresche e spontanee. Quel che si evince maggiormente è la ricerca della vita, la ricerca di un mondo fra quelle montagne, la descrizione di un mondo che nessuno oggi conosce e che non esiste più.
In quei silenzi di quegli spazi naturali immensi, dove la maestosità della bellezza, nella sua forma estetica, è stata trovata.
E lì è rimasto qualcosa di lei.
È il suo paesaggio. È il mio paese. Sono le tue montagne.
Sono i ricordi che collegano anche vissuti differenti.
I ricordi, la Recherche di un’infanzia perduta, di un’essenzialità affettiva: una dimensione campestre e magica di una giovane brontiana, come ella stessa si definisce.
“Per quel che mi riguarda – io scrivo. L’istinto zampilla come linfa in un albero. Il difetto di gran parte della mia scrittura descrittiva è che tende a essere troppo definita”.
Come linfa.
Quel che resta e non passa.
Natalia Ceravolo
E tu cosa ne pensi?