Quando Elena Varvello, per Ex Libris, mi ha chiesto per dopodomani «due cartelle e tre poesie», ho pensato subito al mio whitmaniano Raga delle tartarughe: l’ho scritto nel 1995, al centro di un vulcano che ha cambiato la mia vita: il combattimento contro la sofferenza, contro il silenzio della mia condizione di poeta; la ricerca della Via, l’incontro con uomini con cui ho cominciato a praticare zazen, la meditazione seduta e silenziosa del Buddha. Ci sono tante parole, nel Raga delle tartarughe, infiniti ritorni come in un raga indiano, appunto, suonati da un sitar ripensato da Phil Glass e Steve Reich, comunione metafisica di un comune sentire di Oriente e Occidente. Sgorgando in quello che ora è il mio libro inedito Fuori di me, quelle parole letteralmente salvarono una vita, la mia.

E vivo, ora. Nella poesia credo come salvagente della vita della gente, come salvacondotto per una vita salvata. Per questo sto fondando, con pochi amici (il poco è tutto!), la S.Po.V!, la Società dei Poeti Viventi, che lavorerà a una vitalità orale della poesia: perché tacere in attesa che il mercato editoriale ci stampi per una lettura solitaria e silenziosa ed eventuale che non verrà, forse, che tra anni, decenni? Perché non possiamo incontrare qui e ora gli occhi, lo spirito di chi ci ascolta? Non conta che l’istante presente, e non possiamo confidare in istanti che forse non verranno mai. «La S.PO.V! – recitano i due capitoli finali del manifesto – è confraternita di vivi: non più letterati, né colti, né saggi, i poeti viventi sono semplicemente oltre, ovvero, totalmente nel presente della propria intuizione parlata (cantata?). La S.PO.V! non ha fretta, non ha bisogni: potrebbe anche non nascere, poiché già è». Scrivo queste parole ascoltando un cd che raccoglie la voce di Jack Kerouac che si legge, che è, anzi, la sua poesia. Forse, invece che libri, dovremmo stampare dischi, e far viaggiare la nostra parola nell’aria, invece che sulla carta: le nuvole non sono forse più libere delle foglie? Una foglia è libera soltanto quando muore; vola dopo la morte, tocca postuma la terra della concretezza. Come un poeta.

Ma io vorrei essere nuvola, quando morirò! Un monaco – dicono i maestri zen – è come una nuvola nel cielo: libera, impermanente nell’impermanenza dei fenomeni.

Forse, se la smettessimo di cercare con tanta delusione la certificazione postuma di un Libro, conosceremmo la felicità, «o annientamento anonimo / nel nullo nullissimo, infine nostro nulla».

Daniele Martino

Raga delle tartarughe

La donna è ferma nel suo box segreto e cerebrale
in questa folle corsa, mortale ed immortale:
e non c’è scampo, non ripartirà da sola
finché non sarà fuori dalla panne che la desola.

Agosto: in una città vuota, deserta d’affetti più che di persone
una pioggerellina fredda, che gela anche di fuori
iberna amori non finiti, sfiniti, riconvertiti in infiniti
lunghi di una longevità che ha per secondi i mesi
(così viviamo adesso il primo dei minuti, eterno, senza pesi).

Io ho tutto, dalla vita, pare,
per questo son sedotto dal tuo niente, Guido
e tu, che invece, pare, non hai niente
ingordo guardi il mio vorace tutto.
(Mi scosto dal balcone, per prudenza
perché potrei buttarmi oltre ogni apparenza.)

Le donne, chiuse dentro gusci d’attesa, di paura,
sono anfibie nuotatrici tra fondali di emozioni
e rive secche in cui rigettano, stremanti, situazioni;
le tartarughe s’immolano al menu del produttivo
sublimano, si dice, le loro storie in un bon bon di Storia.

E tu, tu sei stupenda, brutta stronza
e t’amo e t’odio in catulliana sbronza:
anzi, mi sei già quasi indifferente
di te non me ne frega proprio niente.

Sapevo gli imbarazzanti tramonti…
Ma dopo, ecco, mi rincorri e dici che “allora come faccio
che non mi hai neanche consigliata come fare
e che io ho solo questo mio problema di lealtà
e che io non vorrei…”: mia principessa delle ellissi!
Sono seduto nel teatrino, stancamente
e tu racconti buffa di Zia Chiocciolina
che ti faceva le carte e non ha capito niente
delle tue solitarie ore marine
(delle paure: le bisce, i pesci alati mostruosi pescati quasi a riva):
la tua grazia ora è di nuovo tutta nel suo guscio
lenta, incerta, forte e ritratta, schiva:
ed io non ho la forza di tirarla fuori, ancora
e ti carezzo il guscio dolcemente, senza astuzia, ora.

lo, che sono io, lo, mio Dio!
solo dentro la Stanza del Monaco Sensuale
sono fatto ( e disfatto) per capire troppo
così non so se preferisco distruggerti o adorarti.

La foto che mi specchia fotografa la faccia che lo specchio mi rispecchia
un paffuto straniato dal dolente sguardo, sempre altrove.
Nuotando tra volute di una Maryland straniera (un altro dove… )
o in rare estatiche dromoscopie con l’autoradio medium di sedute spiritate
rigodo l’ossessione minimale ed ostinata
la delusione, perché sorella Adrenalina non riesce a farmi nuovo.
Non odio neanche più quasi, ormai
soffro di un male instabile e incurabile
vergogna che non posso confidare neanche al mio jedi
che non mi sta a sentire, e sogna di un Negozio delle Idee
di un censimento delle Frustrazioni e delle Vittime
in cui, ma certo, anch’io riavrò un mio ruolo.
(Perché per me, guarire, sarebbe far lo struzzo, sparire, dileguare
togliendo dalla faccia della terra il me che ho la condanna di abitare).

Ed eri molto bella, ieri. Ed io molto braccato.
Ma tu, per me, non rischi un accidente
e quando non sei pronta a dirmi “sempre”
è come mi dicessi “con te mai”.

Le tartarughe, erotiche, mi guardano
vogliono l’opera d’arte, stanchi refrain, foga:
nei sogni, gelide, eccitanti, sognano da me nozze e bambini…
nei sogni: banditi mi sequestrano come scudo umano…
zingari sulla strada mi riempiono di botte…
mostri per sbranarmi attendono la notte .. .

Se ci eravamo presi, ti sto quasi lasciando.
Se non ci siamo presi, invece
fai tu qualcosa, adesso, e prendimi da me!
(Ma lei mi invita: “Presto, mi sa che morirò”.)

Cosi ho provato tutto: amore e depressione
tradimento carriera disimpegno seduzione
gioia coniugale trip paterno fede protestante
maledettismo controllato ed elegante…
Cosi mi mancano soltanto:
il grande viaggio solitario (senza direzione)
l’annientamento anonimo e barbone.
Cosi se mi ammazzassi potrei trovare, postuma, una culla
nell’ultima caduta nella polvere del nulla, nel nullo nullissimo mia nulla.

Io,
solo dentro la Stanza del Monaco Sensuale
sono fatto (e disfatto) per capire troppo.

Guido a Zacinto nuotava tra carette predatrici nell’acqua di Marathonisi
e pensandomi in mezzo alle sue crisi mi ha portato in un vasetto da cucina
una spina d’agave (artiglio di una che straziò Foscolo bambina?).

(Ma lei mi invita: “Presto, mi sa che morirò”.)

Fosco, preparo per la cena brodo di tartarughe all’ermafrodita;nei gusci vuoti tiro con le dita le corde di una lira ermetica, crittata.

Io ho tutto, dalla vita, pare.

(Cosi viviamo adesso il primo dei minuti, eterno, senza pesi).

Io ho tutto, dalla vita, pare.
(Mi scosto dal balcone, per prudenza
perché potrei buttarmi oltre ogni apparenza.)
Io, che solo dentro
sono fatto (e disfatto).

Rigodo l’ossessione minimale ed ostinata
la delusione, perché sorella Adrenalina non riesce a farmi nuovo.

(Perché per me, guarire, sarebbe far lo struzzo, sparire, dileguare
togliendo dalla faccia della terra il me che ho la condanna di abitare).

Nei sogni: banditi mi sequestrano come scudo umano…
zingari sulla strada mi riempiono di botte…
mostri per sbranarmi attendono la notte .. .

(Ma lei mi invita: «Presto, mi sa che morirò».)

Cosi se mi ammazzassi potrei trovare, postuma, una culla
nell’ultima caduta nella polvere del nulla, nel nullo nullissimo mia nulla.

Io,
nell’ultima caduta nella polvere del nulla, nel nullo nullissimo mia nulla.
Io che ho tutto, dalla vita, io, minuscolo mio Io.

(un altro dove…) (un altro dove…) (dove?)
(sparire, dileguare)
(presto, mi sa che morirò)
o annientamento anonimo
nel nullo nullissimo, infine nostro nulla.

Daniele Martino, fondatore della S.PO.V!, è nato nel 1959. Ha pubblicato le poesie Ripidi amori (Torino, L’arzanà 1984), Madrigale (Siena, Quaderni di Barbablu 1988), Minimale (in Nuovi poeti italiani 4, Torino, Einaudi 1995) e il saggio Catastrofi sentimentali. Puccini e la sindrome pucciniana (Torino, EDT 1993), Zen session nel 2012 per Marcos y Marcos. Ha scritto il libretto per l’opera lirica in un atto Averroè di Marco Betta (Teatro di Messina, 1999). Ha lavorato come caporedattore del mensile «Il Giornale della Musica». Attualmente è insegnante e dirigente sportivo. Scrive i testi poetici musicati da Marco Robino per Peter Greenaway (Goltzius and The Pelikan Company, 2012). Il suo blog è Stanze.