«Scompaiono le persone e le cose, non i luoghi.»

Se i luoghi non scompaiono, allora l’autrice che li esplora, li vive, li racconta e li ricorda, li lega per sempre alla pagina, agli occhi, all’anima di chi ne legge e si fa accompagnare nella loro scoperta che è poi la (ri)scoperta di sé, del mondo che vive in ognuna e ognuno di noi. Dunque Daphne du Maurier, autrice della citazione in apertura, abita ogni luogo che nella vita ha visitato, ogni storia che ha ascoltato, ogni libro che ha letto… e sono tanti.

Figlia del bellissimo e magnetico attore Gerald, e di Muriel Beaumont, anche lei attrice, ritiratasi dopo il matrimonio, Daphne nasce nel 1907 dopo Angela, prima di Jeanne, nel prestigioso quartiere londinese di Mayfair. La preponderanza del francese in questa perfetta famiglia inglese è dovuta all’ascendenza dei du Maurier datata 1720, un’ascendenza di cui Gerald è grande conoscitore e ammiratore e della quale mette presto al corrente le figlie.

La più curiosa è Daphne: scopre la storia del nonno Kiki, apprezzato artista e scrittore nato a Parigi, e si mette sulle sue tracce dapprima leggendone i libri, più in là recandosi nella capitale francese, una città che resterà sempre nel suo cuore. Suo padre le ricorda spesso che è per un quarto francese, e di esserne fiera.

Altri luoghi aspettano Daphne, però, e sono carichi di mistero, di storie antiche e affascinanti, posti da perdere il sonno la notte, scatenano il desiderio di scrivere che in Daphne è prepotente fin da quando ha quattro anni. 

Quando in Cornovaglia nel 1926 si ritrova davanti alla casa nota come Menabilly inizia per lei una vera ossessione: «Forse è sbagliato amare un blocco di pietra come questo, come si ama una persona. Non può durare. Non può resistere. Forse è proprio l’incertezza dell’amore che rende forte la passione. Perché lei [la casa, n.d.a.] non è mia di diritto. La casa è ancora proprietà privata e un giorno apparterrà a qualcun’altro.»

In realtà, un giorno sarà proprio lei ad abitarla, dopo aver convinto la famiglia Rashleigh a cedergliela in affitto. E Menabilly sarà la Manderley del suo romanzo più celebre, la sua storia più riuscita, potente per l’immaginario di lettrici e lettori al pari di un ordigno esplosivo. È un grande successo, «un uragano, un uragano chiamato Rebecca»[1]

Quarantamila copie vendute in un mese che diventano duecentomila  alla fine del 1938, pochi mesi dopo la sua pubblicazione.

Nel 1939 Alfred Hitchcock inizia le riprese della versione cinematografica di Rebecca in California: Daphne ha molte riserve sul regista che ha già diretto un film tratto dal suo precedente romanzo, Jamaica Inn, giudicato non solo dall’autrice, molto deludente. Teme dunque che quell’ometto enigmatico distrugga anche il successo di Rebecca. Non sarà così, però.

Il film esce per la prima volta a Londra nella sala del Queen’s Theatre a marzo del 1940, in un’atmosfera internazionale tremenda, in pieno conflitto mondiale: diventa un successo di   portata impressionante, Daphne ne è entusiasta, ne apprezza la regia, l’immagine in bianco e nero, il cast stellare (Laurence Olivier nel ruolo di Maxim de Winter, Joan Fontaine come la seconda moglie, una straordinaria Judith Anderson nei panni della diabolica Mrs Danvers).

Daphne du Maurier diviene l’autrice più celebre del suo tempo, i suoi libri non smettono di vendere, le traduzioni si susseguono.

Come molte altre autrici prima e dopo di lei, du Maurier subisce una sorta di colpo di spugna nelle diverse antologie letterarie, britanniche e internazionali, nonostante la sua prosa irresistibile, i suoi personaggi complessi e maledetti, le sue descrizioni oniriche e suggestive. Il pre-giudizio sulle sue opere reca il timbro del sistema patriarcale, impegnato strenuamente a cancellare, ricategorizzare, sminuire il lavoro delle autrici nei secoli. Pur essendo stata una scrittrice arguta, originale, prolifica, Daphne du Maurier risulta un’autrice ‘minore’, le sue storie vanno a ingrassare le fila del sottogenere ‘letteratura femminile’ (come se ce ne fosse una ‘maschile’, cit. Vera Gheno) perché le donne che scrivono, scrivono solo per altre donne e dunque la loro opera non può essere valida universalmente. Di du Maurier si leggono articoli che sottolineano la sua ambiguità sessuale, il suo atteggiamento libero dalle           convenzioni, le sue ossessioni per i luoghi, curiosità pruriginose che nulla hanno a che fare con il suo valore di scrittrice, al netto di qualsiasi giudizio su Daphne in quanto donna.

Nel volume Vietato scrivere. Come soffocare la scrittura delle donne la professoressa Joanna Russ esamina la sistematica e complessa struttura strategica funzionale alla rimozione, alla derisione, al disprezzo della scrittura delle donne con la conseguente mancanza di modelli e di punti di riferimento per qualunque potenziale autrice.

Come si può sconfiggere questo subdolo e pervicace sistema? Scoprendo e riscoprendo le scrittrici, leggendole, condividendo il loro lavoro, le loro idee, parlandone, scrivendone.

Personalmente, ritengo Daphne du Maurier una delle migliori autrici di lingua inglese del ‘900 e spero che vi mettiate immediatamente alla ricerca di uno dei suoi romanzi. Se leggerete Rebecca, potrete partecipare all’incontro del bookclub organizzato dalla sottoscritta che si terrà online prossimamente. Buona lettura, allora.

Barbara Buttiglione


[1]     De Rosnay, Tatiana, Daphne, Neri Pozza Editore, 2016. pag. 194