«Non mi aspettavo che questo percorso mi coinvolgesse così tanto. Sia per l’esperienza di lettura collettiva sia per gli incontri con gli esperti e le lezioni di scritture. Mi dispiaceva tenere la telecamera spenta perché avevo altre menate di casa da fare e non pensavo che ogni volta, le vostre parole, mi incantassero così a lungo, durante l’incontro dedicato alla poesia di Goliarda piangevo e mio marito mi chiedeva: ma che hai? Che meraviglia.» Di tutta questa meraviglia che avete appena letto io non sono l’artefice, non sono la voce, non sono  nemmeno la sostanza e il contenuto. Non sono il filtro. Non sono la guida e la regista di nulla. Non sono la strega (almeno, non ufficialmente). Ogni cosa meravigliosa che è nata da maggio, quando abbiamo cominciato a festeggiare i cento anni di Goliarda Sapienza, fino a oggi 25 novembre mentre scrivo, si è manifestata in maniera spontanea grazie alla presenza di Modesta, la protagonista de L’arte della gioia che abbiamo letto e riletto insieme e alle voci e agli sguardi di chi ha attivamente movimentato questi mesi. E sono state tante queste persone, meraviglie. Le ringrazio per la partecipazione, per aver chiuso non uno ma tre occhi davanti ai segni di stanchezza, per aver manifestato opinioni diverse ed essere rimaste per capire e andar a fondo di ogni questione. Ringrazio chi ha scritto la sua recensione, rafforzando l’idea che questo gruppo di lettura è nato, molti anni fa, per essere anche un gruppo di scrittura e ogni volta così è stato, raggiungendo una peculiarità che non esiste altrove. Ringrazio la redazione di Exlibris20 che ci ha ospitato e sopportato, le voci fondamentali che ci hanno allietato (Anna Toscano, Francesca Manfredi, Giorgia Antonelli, Cono Cinquemani e Vera Gajiu), le lettrici e i lettori del Gdl che hanno volontariamente fatto una donazione consentendomi di affrontare le spese organizzative, di regalare a chi ha tenuto lezioni speciali un libro a propria scelta dalla libreria indipendente La Campus. Le ringrazio perché ancora non sano che il restante fondo della donazione è stato devoluto alla Fondazione Cecchettin che è nata proprio nei giorni in cui il nostro gruppo di lettura dedicato a Modesta, la protagonista del capolavoro di Goliarda Sapienza, sta chiudendo. E anche questa, seppure con un traccia di dramma infinito, è stato un caso meraviglioso. Perché Modesta è anche una donna che subito più di una violenza e la sua storia parla anche di come al male si sopravvive.
Se dovessi dire cosa ha significato per me trascorrere questi sei mesi insieme (e affrontare la lettura del romanzo per la decima volta) non posso che riferire una delle frasi che ho segnato a ogni sua lettura e rilettura, ma che non ho mai condiviso finora come se la leggessi per la prima volta e la comprendessi davvero solo alla prossima.

«E allora dimmi:
io che sono come te,
che come te voglio tutto,
come potevo fare?»

Alessandra Minervini

In L’arte della gioia Goliarda Sapienza crea una delle figure narrative più potenti e controverse della letteratura italiana. Modesta è una forza che sovverte il destino, e attraverso di lei, Sapienza ci fa dono di una donna il cui corpo vive nella storia e il cui desiderio plasma la realtà. La sua è una rivoluzione che non si ferma alla pagina e che continua a risuonare nel tempo. Modesta è una figura che sfida chiunque le si avvicini. È uno specchio che suo malgrado sussurra verità scomode. La potenza del desiderio, la consapevolezza di sé, la capacità di scrivere e riscrivere la propria esistenza senza mai cedere al conformismo fanno di Modesta una sorta di Atena moderna che scavalca ragione, norma e aspettative. Lei non è una dea che emerge dalla testa di un uomo, ma una figura autonoma che emerge dalla testa di una donna, Goliarda, che sa riconoscere e canalizzare la forza di un femminile mai visto prima nella letteratura italiana. Goliarda Sapienza è straordinaria nell’intercettare la sua voce in quella operazione di “channeling” che pare essere L’Arte della gioia. Le dà vita forgiando una lingua che riscrive le regole della narrativa tradizionale. La scrittura ne L’arte della gioia è un atto di forza né estetico né intellettuale. L’uso drammaturgico della parola scava, incespica e scivola da un pensiero all’altro, da un’azione a un’altra praticando una libertà così estrema da renderne a tratti irritante la lettura. Come ha potuto Goliarda essere così sfacciata? Modesta emerge dalla pagina come corpo vivo.  La  verità e l’autenticità sono il suo scopo, la gioia è una pratica, il desiderio è il motore che rompe ogni forma di subordinazione e che le permette di ergersi alla pari di chiunque la osserva e giudica, lettori e lettrici compresi. È nel suo desiderio che Modesta trova la sua forma di potere, e attraverso questo desiderio riesce a costruire una storia, personale e collettiva, che ribalta le convenzioni e celebra la libertà.

Milena Pesole

L’Arte della Gioia non smette mai di stupire. Non importa quanto mi impegni, ben consapevole di essere in guardia quando si tratta di Goliarda, rimango sempre folgorata da una storia che riesce ad essere coinvolgente e sconvolgente al tempo stesso, al punto che più volte devo tornare sui miei passi e chiedermi incredula: È quello davvero che mi sta raccontando Goliarda? Eppure, lo stesso concetto di dover ripassare le pagine più volte per crederci non è insolito, soprattutto quando si considera che il libro abbonda di temi controversi anche per gli standard odierni. Questo fa venire in mente la domanda: quali reazioni ha suscitato nei lettori all’epoca di sua scrittura? Leggere Goliarda mi fa percorrere la strada sinuosa che ci ha cautamente preparato in balia di un turbine di emozioni contrastanti che non lascia tregua: riaffiora la bambina che è in me, questa volta tormentata a bordo di un treno fantasma, sperimentando una mescolanza di paura e eccitazione per quello che c’è nascosto dopo la curva, ma che voglio confrontarlo comunque. L’autrice è stata abile, astuta e subdola nel suo sondare il terreno attraverso il lettore, e lo ha fatto metodicamente attraverso gli anni, senza mai stancarsi e, ciò che è ancora più strategico, incantando le sue cavie nel frattempo. Insomma, sono stata inconsapevolmente catturata dall’abilità sperimentale di Goliarda. E nonostante ciò e proprio per ciò, non posso fare a meno di essere affascinata dalla intelligenza e l’astuzia dell’autrice.

Analis Bernacchi

“All’opposizione si deve stare, ci ho pensato. Nina ha ragione. Soprattutto noi donne: all’opposizione sempre.” – C’è sempre una frase, in ogni libro che leggo, che faccio mia o che ritengo che presuntuosamente mi rappresenti. Ne L’arte della gioia c’è una donna rivoluzionaria, indipendente e abile alla vita, così tanto da costruire uno “schema Modesta”, uno schema da studiare e riprendere nella vita. Leggere Goliarda Sapienza è come leggere i racconti della vecchia zia defunta, venire a conoscenza di tutti quei meccanismi deleteri che settant’anni fa erano normali. È il viaggio in una vita importante e grandiosa, che attraversa le diverse fasi coraggiosamente e in maniera assolutamente stupefacente. La sessualità multiforme, l’amore profondo per ciascuno ma pragmatico. È stato amore a prima pagina, ho letto dell’entrata di Modesta nel mondo così truce e misero che le era stato destinato, la sua rivalsa, il suo modo di rialzarsi ogni volta, la sua sincera espressione delle proprie paure. Il modo in cui Goliarda ha intessuto legami su legami, molto importanti e meno importanti. Per me non ci potrà mai essere una Goliarda senza Modesta e viceversa. Goliarda e Modesta dicono cose che nessuno è in grado di dire, sono sfacciatamente oneste. Oggi sarebbero le diverse, quel tipo di diversità che io amo tanto. “Ma nella coscienza di essere diversi c’è anche gioia, Carluzzu, se la si sa scovare.”

Palmina Colella

L’arte della gioia è per me una festa, e non di quelle fatte per dovere o per festeggiare una ricorrenza, ma per celebrare la vita. Modesta ha amato la vita dal primo istante in cui viene al mondo. Il suo desiderio di vivere è salvifico. Mano a mano che ci accompagna nel suo percorso di crescita, questo suo desiderio la eleva;  il suo sguardo è rapido, premonitore, libero. È un’autodidatta, non si piega a nessun dogma. Non è ambiziosa Modesta, vuole solo godere di questa festa, prenderne a piene mani. Coloro che le ruotano intorno la affascinano e ne sono affascinati, sono piccoli specchi che la riflettono e che parlano di lei e di un’epoca cardine. Durante questa grande festa nella quale sono tutti invitati, viene rischiarato l’esterno, e l’interno resta in penombra, così che le cose possano essere interpretate prima ancora di essere viste. E l’esterno diventa ospitale, smette di fare paura. A una festa così si deve trovare l’audacia di starci fino al mattino.

Raffaella Bersani

Modesta si ama come una creatura dionisiaca di un’isola mitologica che rimane negli anni della narrazione sempre donna libera, disinibita, amore allo stato puro, generosa con sé stessa e con tutto il mondo che continua a ruotare intorno a nascite, morti, relazioni e storie.
Dobbiamo riverire la bellezza di questo personaggio, il suo ergersi contro un intero secolo con la precisa volontà di sedurlo, nel senso più letterale del termine, cioè distoglierlo e portarlo a sé, al cuore di una femminino negato.
Dalla Sicilia di inizio Novecento al dopoguerra, la costruzione incantevole di un personaggio che è LETTERATURA, al quale, ancora e soprattutto oggi, dovremmo riferirci per crescere le nuove generazioni.
Rileggerla in quest’anno in cui avrebbe compiuto cento anni significa ricordare che abbiamo ancora bisogno di altre mille come lei, oneste con se stesse, poiché in questo consiste l’ultima delle purezze. Cospiratrice, passionale, radicata e sradicante, senza nessuno da perdonare perché non voleva essere perdonata da nessuno: la sua lezione è profondamente letteraria perché insegna che qualsiasi cosa accada restano sempre e comunque le parole, nero su bianco, che non si perdono più, che non si possono fissare in un solo significato, snaturandole. Lei è stata accurata, e la cura è sopravvivenza; la precisione cesella il mondo intorno, per questo è importante scegliere i significati giusti di ogni singola lettera, perché altrimenti ci si condanna alla menzogna, quella vera, non certo gli svenimenti ad arte o le trame machiavelliche che tanto ci fanno sorridere quando leggiamo di Modesta. Solo le parole possono mentire, ed è un pericolo molto grande: anche la parola vecchiaia mente, “è stata rimpinzata di fantasmi paurosi che riemergono dai nostri passati”, che ci ricordano sempre tutto mentre ognuno di noi conosce la lotta quotidiana per dimenticare. Anche la parola amore mente: lei “si è innamorata tutte le volte che è stato necessario”, perché è solo così che si possono vivere amori eterni. L’arte della gioia dovrebbe diventare un manuale di educazione sentimentale per abituare ad un’idea dell’amore che non sia proprietà esclusiva di corpi e di vite, e che sia la bellezza della temporaneità; per insegnare l’abbandono e che tutto ha valore anche per quel che è durato.
Che è solo l’onestà a renderci affidabili, e l’affidabilità è molto più preziosa della fedeltà. Per insegnare che si può vivere di meraviglia anche nella tragedia.
Quando voltiamo l’ultima pagina di questo libro finalmente sappiamo che la vecchiaia non esiste se rubiamo alla morte tutta la vita possibile, se coltiviamo questo senso profondo di libertà che è un’arte, della gioia, appunto.

Emma Cannavale

Goliarda Sapienza crea la sua figlia di carta, Modesta, quando ha 43 anni e la porterà alla luce 9 anni dopo. Una gestazione di una primipara attempata, Modesta è la figlia della maturità quella a cui Goliarda affida il compito più arduo, essere realizzata, felice in barba a tutto e tutti. Dove inizia Modesta e dove finisce Goliarda? Non lo sappiamo, c’è una commistione viscerale fra le due, impossibile seguire Modesta nelle pagine senza pensare a Goliarda che scrive con la ferocia di madre che mette al mondo sua figlia e la difende a spada tratta. Per lei patisce tutto, la povertà, lo scandalo, il giudizio. Ma lei quella figlia la vuole e vuole che il mondo la veda, la ammiri, si lasci sconvolgere. La sua non è una figlia qualunque, è Modesta di nome ma non di fatto. Nella realtà Modesta vuole tutto e per questa forza che la muove supera le barriere del lecito, uccide anche se non sembra grazie alla penna di Goliarda che scivola sui fatti con nonchalance. Modesta fa qualcosa di molto più rivoluzionario che ancora oggi suscita sospetto e giudizio, lei non è una vittima, non ha mai la postura da vittima, passa  attraverso lo stupro, l’ incesto e va oltre. Non ci serve una lettura psicologica, cosa tanto frequente oggi, in un’epoca in cui il trauma è il grande protagonista, Modesta è mossa da qualcosa di tremendo, di spaventoso, una fame di vita che a volte ci fa ritrarre ma che attiva qualcosa dentro di noi, risveglia memorie ataviche, ancestrali, da quali donne discendiamo, chi ha lottato per esistere, per affermare il diritto alla gioia? E noi dove siamo, cosa stiamo facendo per la gioia, per quella sensazione vibrante e cristallina? Dove si annida Modesta dentro di noi, quanto spazio prende? Leggere L’arte della gioia è un viaggio sensoriale, carnale, bisogna affidarsi, lasciarsi trasportare, non analizzare, è uno stordimento che solo in Sicilia si poteva ambientare, là dove la luce e i colori e le forze telluriche sono talmente intensi da generare un senso di spaesamento, di perdita dei confini, là dove tutto può accadere, dove la gioia diventa arte e non importa cosa sia servito per arrivarci. Goliarda ci ha regalato molto di più di un personaggio, ci ha regalato una promessa e una lezione, non importa che il mondo si accorga del valore di un’opera, l’importante è dedicare tutto a quell’opera, anima, cuore e sangue, da qualche parte quest’opera agirà.

Elena Valzania

Massimo 2000 battute per esprime cosa ha significato per me imbattermi ne L’arte della Gioia e in Goliarda Sapienza e in Modesta Brandiforti in questo specifico momento della mia vita di lettrice, in questo specifico momento della mia vita di donna. Se fossi stata in coda al supermercato, con la spesa nel cestino e il libro in mano, appena scelto da uno scaffale, sarebbe suonata una specie di musichetta davanti alla cassa: “Complimenti – avrebbe detto la commessa – lei è la lettrice numero centomilliantaeccetera e ha vinto un’esperienza di lettura speciale, due pacchi di fazzoletti da naso e una fornitura di penne biro per ricominciare a scrivere”.
Nella realtà non è andata così: ho acquistato l’ebook online e non ho vinto fazzoletti e biro (e poi chi ha mai scritto con la biro!). Ma l’esperienza di lettura speciale sì, quella l’ho vinta davvero, e anche le emozioni che ho provato (dal riso al pianto) e la voglia di continuare a scrivere a mia volta.
Ho vinto persino un’opportunità magnifica di confronto con altre lettrici che hanno partecipato agli incontri. Incontri in cui ho respirato femminismo senza esagerare, sentimenti di rivalsa e condivisione di una passione esagerata.
Ho vinto le coltissime e profondissime divagazioni sul tema, su chi è stata e chi è Goliarda Sapienza, e le ho succhiato quello che potevo. In particolare una poesia sulla madre che rileggerò quando ho bisogno di ri-piangere per la mia.
E infine la gioia della scrittura, i punti esclamativi, la danza del linguaggio e delle parole. Solo Cèline – autore maschio di convinzioni così diametralmente opposte a quelle di Goliarda – mi ha fatto altrettanto ballare leggendo. E forse non è un caso.
Grazie Goliarda: per quanto mi riguarda sei riuscita con la scrittura (e anche con la tua storia) a “rubare alla morte tutta la vita possibile”.

Laura Ghisellini

Si può fare della gioia un’arte?
Potrebbe essere questa la domanda che ha suggerito a Goliarda Sapienza il romanzo L’arte della gioia.
E come ogni arte, anche la gioia si realizza nella sua massima espressione grazie alla curiosità, alla libertà ed alla volontà. Oh, Modesta, mi insegni a essere felice! Perché lei ha scelto di essere felice. Quando ha detto: “I fatti c’entrano poco”, ho sentito che la sua serenità è stata un attimo di volontà. Quella di Modesta è una volontà irriducibile, che non teme i giudizi morali del contesto arretrato in cui è cresciuta e grazie alla quale accrescerà la sua conoscenza, fino a diventare un punto di riferimento per gli intellettuali dell’epoca (l’autrice è nata nella Sicilia dei primi anni ’20, in una famiglia molto impegnata socialmente, circondata da fratelli più grandi e molto colti). Modesta è una donna siciliana del primo 900 ed è libera. Protegge e nutre questa sua libertà come una leonessa fa coi suoi cuccioli, affrontando nel corso di una vita, maschi dominanti e matrone bigotte, riconoscendo come unici padroni i suoi sensi. Tutto questo in un libro che ha il potere di provocare nel lettore sensazioni forti, contrastanti tra loro, che riesce a rendere lirica la carnalità, le cui pagine sono scritte con l’inchiostro, ma qua e là odorano di sangue.

Samuele Luciano

Ho sempre aspettato di conoscere la mia eroina, non sapevo che non sarebbe stata buona e compiacente e che nello stesso tempo si sarebbe sempre spesa per la sua parte, quella delle persone che amano. Modesta non si risparmia nulla – le lacrime, il dolore, il male – per riconoscere lo spazio di azione della sua libertà e rendere reale il suo mondo interiore. Nella prima parte del romanzo, la piccola Modesta che si nutriva solo della durezza del mondo, scopre che il contatto con l’altro è fatto di parole, di intimità e di segreti non detti. Di fronte al volto distante della madre badessa, Modesta-narratrice ci dice che per quel viso che le aveva suscitato troppe emozioni, non poteva non piangere. Lacrime diverse sono quelle di Beatrice, che Modesta beve per dissetarsi. Posso immaginare le labbra di Modesta posarsi sulle guance della principessa che le fa assaggiare il sapore dell’acqua del mare, ancora per lei sconosciuto. Goliarda non descrive questi movimenti ma la scena è – per me – chiara: Modesta attinge alla fonte del dolore e scopre qualcosa di significativo, di sé, dell’altra, di un posto a cui non si sapeva di appartenere. Lei non aveva mai visto il mare e da quel momento le sue azioni si caricano anche di questa attesa. Quando osserva per la prima volta “quel cielo liquido rovesciato che fuggiva calmo verso una libertà sconfinata”, versa le sue prime lacrime di riconoscenza. È stato potente leggere la fine della prima parte insieme a un passaggio di Io, Jean Gabin, in cui Goliarda dice di aver imparato dall’attore che la donna è come il mare “[…] il mare segreto di vita, avventura magnifica o disperata, bara e culla, sibilla muta e risposta sicura […]”. Durante queste letture, è come se Modesta e Goliarda mi abbiano chiesto cosa voglia dire essere donna e per cosa valga la pena di battersi. Rimane una risposta, non esaustiva ma definitiva: si possono chiamare con il loro nome i desideri e le sofferenze per non permettere che l’esterno li sovrasti.  

Giovanna Marcianò

«La nostra mamma non rideva mai e anche questo perché era femmina, sicuramente». 
L’arte della gioia Modesta la impara da sé perché agli inizi del ‘900 non puoi godere della tua femminilità, non puoi sedurre gli uomini che ti affascinano e non puoi esprimere liberamente nemmeno le tue perversioni oscure. Tutto esatto ma non per Modesta. Se è vero che la nostra vita è dettata per il dieci per cento da ciò che ci succede e dal novanta da come scegliamo di reagire, ebbene, la nostra personaggia ha mille incredibili vite perché, laddove qualcun altro avrebbe fallito, lei risorge. Finalmente non si parla più di self-made man ma di una ragazza siciliana in grado di crearsi un’invidiabile posizione sociale partendo dalle macerie della sua casa natale a cui lei stessa ha dato fuoco. Un matricidio tangibile e simbolico per creare un nuovo status quo senza pregiudizi né inibizioni. Come insegna il conquistatore Cortés, devi bruciare le tue navi per conoscere nuovi lidi. Questo romanzo potrebbe essere ribattezzato come “Il nuovo Principe” di Machiavelli poiché non è l’etica morale ma l’astuzia abbinata alla forza e alla fortuna a decretare il destino dell’uomo moderno.

Sabrina Pugliese

L’arte della gioia è un romanzo da ri-leggere.
La mia prima volta risale a più di dieci anni fa: rimasi folgorata da Modesta, così scandalosa, vitale e priva di scrupoli. Divorai le prime due parti del romanzo, ma sentii le energie calare arrivata a metà e lo conclusi a fatica, rallentata da troppi personaggi e dai molti dialoghi, lunghi, a più voci, che mi disorientarono.
La recente esperienza di lettura è stata del tutto diversa, molto più consapevole e attenta alle risonanze tra Goliarda donna e scrittrice e la sua protagonista, più sensibile verso i tanti temi trattati, dalla psicologia, all’analisi sociale, alla politica. Ho sentito lo spessore di Modesta crescere con la storia, non è più solo la ragazza senza paura, senza rimorsi e senza freni della prima parte, ma anche una donna capace di creare intorno a sé una famiglia allargata ante litteram, aperta, in cui c’è spazio per tutti, amici, amanti, figli, servitori. Non la classica famiglia meridionale, numerosa e patriarcale o matriarcale, di cui abbiamo tanti esempi nella società e nella letteratura italiana, ma uno spazio comune, condiviso, in cui lasciare posto ai singoli potendo però contare sul sostegno del gruppo. Modesta governa questa famiglia queer a modo suo, fa da padre o da madre secondo il suo umore e chi ha davanti, dando vita a relazioni e dialoghi originali, fuori dagli schemi, onesti al limite dell’incongruo. Che belli gli scambi  con i figli, naturali, acquisiti, “rubati”: quelli con Prando sono violenti e appassionati al limite dell’incesto, con Jacopo è affettuosa e protettiva, per Carluzzu, il nipotino,  prova “l’invidia del vecchio, pronta a esplodere” di fronte alla constatazione di essere ormai diventata nonna. Modesta emerge come personaggio universale, che incarna un’idea di libertà che travalica i confini posti dal sesso e dal ruolo sociale in nome dell’onestà intellettuale, dell’essere sé stessi. Joyce, l’amica-amante intellettuale comunista, diventa nel finale la sua antitesi. Si incontrano dopo un periodo di separazione. Joyce è invecchiata, si è sposata, il suo fascino aristocratico si è tramutato in conformismo borghese, perché “dobbiamo dimostrare al paese che siamo persone rispettabili in tutti i sensi e non i senzalegge rossi”. La risposta di Modesta è spietata. Rivolgendosi alle “sue” ragazze, Bambolina, Crispina, Olimpia, le invita a fare attenzione: “Fra venti, trent’anni non accusate l’uomo quando vi troverete a piangere nei pochi metri di una stanzetta con le mani mangiate dalla varechina. Non è l’uomo che vi ha tradite, ma queste donne ex schiave che hanno volutamente dimenticato la loro schiavitù e, rinnegandovi, si affiancano agli uomini nei vari poteri”.   Goliarda Sapienza guardava lontano mentre dava forma alla sua eroina.  

Carla Bellavia

Goliarda Sapienza attraversa la paura di Modesta con il linguaggio, con il passaggio dalla prima alla terza persona. Modesta racconta, ma quando il dolore le penetra nel corpo si salva estraniandosi; succede nel momento in cui il padre diventa per lei lama di coltello e, scrive Goliarda, “lei sarebbe rimasta lì sulle tavole del letto, a pezzi”. Succede mentre partorisce Eriprando, quando torna in una casa vuota, ogni volta che sopravvive a sé stessa. Il dolore per la perdita di Carmine, invece, Modesta lo cura tuffandosi nelle parole.
Nella seconda parte del romanzo Modesta stringe legami, si fida per la prima volta di qualcuno, Carlo, cui si racconta sinceramente, pur non rinnegando la sua natura. A Carlo racconta segreti che ha dovuto “murare in me. Le cose non dette marciscono dentro di noi”. Questa maggiore consapevolezza le permette di reagisce all’allontanamento di Carmine senza cedere al dolore d’amore, ma immergendosi nelle parole, che acquisiscono “diritto di vivere” e che lei inizia a studiare, cambiando il modo in cui legge e inciampando nella poesia.
In maniera speculare, appena Carmine si allontana da lei, inizia a pronunciare il suo nome e a cercarla nelle altre donne, e quando ritorna, lei si stupisce che la chiami per nome per la prima volta. Joyce rappresenta l’altra faccia della frustrazione d’amore, instaura con Modesta un legame claustrofobico, eppure la presenza di Joyce è la molla che fa riemergere la Modesta bambina, quella che trasporta i tronchi senza pensare alle conseguenze.
Questa magia accade non tanto perché Joyce chiama Modesta “bambina”, anzi quasi in reazione a questa abitudine che irrita Modesta. La Modesta adulta che riflette e che si preoccupa degli altri viene punzecchiata dal piccolo demone della Modesta bambina, che si ostina ad esistere nonostante tutto. Il diritto di vivere delle parole ci sorprende nell’indice finale, dove i capitoli, diversamente dal romanzo, hanno un titolo, componendo quasi una poesia di commiato.

Cristina Calvanelli