È esplicitato nel titolo stesso che si tratta di un repertorio, cioè di un dizionario, un quaderno o volume in cui sono scritti dati. E i dati, che nello scritto sono i versi, riguardano il “perdurare”, sempre stando al titolo, che è il durare ancora.

Come viene svolto il tema? La “amputata vita” può dirsi tale perché ad essa “manca sempre una voce a ricordarci/che non amiamo inutilmente/anche quando ce ne andiamo” (p. 18). Qualcosa di essenziale manca; ma la voce in qualche modo resta a ricordarci che l’amore non è stato inutile, finché alcuno lo ricorda.

D’altro canto, occorre non il silenzio, ma che la parola dica, perché “Non è stato detto ancora/…tutto/di ciò che è stato/…dell’angolo di grazia/e dell’angolo di orrore” (p. 45)

Nella prima sezione, Soglia, tutto suggerisce la perdita, come quando si legge “La mia vita è una casa vuota” (p. 21).. Ma, sebbene l’aver perduto sia definitivo come il “crepaccio che non riusciamo a risalire”, la parola, ripercorrendo nel tuo modo singolare vie antiche, mi dice che è proprio ciò che manca, a ricordarci – dunque a essere presente pur mancando, e nel ricordare si manifesta in qualche modo la presenza – ricordare cosa? Che, se abbiamo amato, verremo anche ricordati. E la parola è tale essere “mille cose perse” e l’averle “ritrovate”, e questo è ciò che noi “siamo” (p. 31).

Credo che in questo pur tenue gioco del ricordo d’amore si manifesti il repertorio.

Le cose del disagio vengono dette in un linguaggio essenziale, dovuto a intima esigenza, che racconta p. e. il passaggio difficile, faticoso delle stagioni: cose “da non poterti dire/… se non bruciasse così tanto la parola” (p. 24) o dette nell’espressione il “Che potevo dirti/se non…” (p. 25).

Nella voluta modalità della scrittura ritorna continuamente un “tu” che è colui a cui ci si rivolge, non il lettore in primo luogo, ma una presenza assente. Nelle espressioni come “Avevo dimenticato di dirti” (p. 26) o “È caduto un fulmine a pochi metri/dicesti…” (p. 27) o “Qualche volta vorrei portarti” (p. 30). Il sapore di ciò che è stato e non torna, frazione d’eternità, esso stesso eternità che “andava via”.

La seconda sezione del libro, Inner, ci parla non di un “tu” ma di una interiorità, che è quella del dolore in un corpo che non morirà com’è nato, perché “ricorda” nel resistere.

Il tema della morte è interiorità vissuta del “non ci rivedremo (… non risolgeremo più” e, nel ripensare la morte, ogni volta “ancora una volta” si muore – anche se in qualche modo/luogo “ti cerco ancora” (p. 50):

Prima di morire si scelgono i ricordi…
Prima di morire si scelgono gli inizi
di un amore…
tutto quanto è peso
resta in terra,
memoria per i vivi  (p. 42).

Nella interiorità dolente che diviene comunicazione di poesia, la voce assume una tendenza all’universale: “Per ogni cosa che non conosco… Per ogni amore che non ho vissuto… Per ogni sguardo che ricordo…” (p. 46); “in me”, una parte o tutta in un punto sta  “l’infelicità del mondo” (p. 51). Il tempo è sempre il passato ma la persona è adesso la terza: “(Egli) Aveva” (p. 52).

Primavera è approdo “breve” ma “Incanto…” e “gusto antico/della tregua”. Subito, ecco la “pena che non si dirada” (p. 56) mentre “Cerca la morte di farsi strada” (p. 58) e il saperlo “regala a volte un sonno/che non ristora” (p. 59).

L’epigrafe alla terza e ultima parte, Suture, è citazione di Rilke che offre un approdo al sacro, perché l’epifania di un luogo come tale è decisa dal “solo dove tu sei” come i versi di apertura confermano. E questo luogo può sembrare qualche luogo di Londra, ma è qualunque altrove, come è evidente, dove “accadde ma nessuno sa perché accadde/che ci amammo” (p. 76). Dunque un altrove pregno di significato.

Il titolo Suture suggerisce che si tratta di riavvicinare i lembi delle ferite perché possano rimarginarsi; mentre le suture di certe ossa (come, per estensione, degli oggetti in più parti) sono le giunture, i punti in cui esse si congiungono, ma segnano anche punti di separazione, di non omogeneità.

Il magico tempo del “curare le radici per guarire” non annulla, certo, il “tempo/che precede la morte/nel dover cercare una ragione/nel saper accettare una ragione” (p. 89). E malinconiche sono le due composizioni in memoria dei poeti Michele Sovente e Armando Saveriano.

Ma sembra che, nell’ancora ondivago sentire del lutto, si apra strada al ritorno di un “noi” in un rievocato bacio (p. 66) o nel sentir tacere l’ombra del quieto cimitero inglese (p. 67), nell’evocare la malinconia, nel dipingere la notte che “spalanca anche i varchi inaccessibili” (p. 72); ma all’intero si applica il sapere “che sei l’unico respiro” (p. 75).

Infine viene, significativo, “Il tempo dell’ascolto” (p. 80), in cui le cose che qui appaiono comunque rassicuranti risultano “molto più di tutto questo” (p. 84):

Il fragore della città nel mattino d’estate
– quando il caldo ancora dorme –
… ghermisce il vuoto mio:
vorrei riabbracciarlo,
per la felicità che mi riversa addosso. (p. 86);
Potrei restare qui anche oltre la vita
imparare dalle radici come andare a fondo…
Con pazienza potrei
aspettare l’alba fragile…
placare così il dolore
e accogliere la bellezza con
lo stupore mai dimenticato  (p. 92).

Perché ciò che muove il mondo-parola è “fonte carica d’amore” (p. 93).

Carlo Di Legge