È da circa un mese che il mondo si è fermato, quella parte di mondo occidentale che ha visto l’Italia incassare il primato per settimane di paese più colpito dall’emergenza Covid-19, dopo la Cina. Abbiamo manifestato, prima di altri, la nostra vulnerabilità, aperto la strada a misure straordinarie che gli altri hanno imparato a prendere come esempio, vedendo in noi, il cuore dell’Europa, il luogo dell’infezione, dell’emergenza, della morte.

Ormai ci stiamo facendo i conti inevitabilmente, a tutte le latitudini. Come un nefasto effetto domino, tutti i paesi uno dopo l’altro a cadere in una inesorabile caduta di massa. Tutti, nessuno escluso.

I virus sono democratici, soprattutto quelli nuovi per i quali in nessun paese si è ancora trovato un vaccino che funzioni. Colpiscono con la forza dirompente di una meteora, incontrollabile, difficilmente prevedibile per gli effetti e la portata.

Il virus ci restituisce cartoline spettrali di un mondo sconosciuto dove l’essere umano, per la prima volta nella sua storia evolutiva, appare come comparsa, relegato ad un ruolo marginale di passante, di addetto ai lavori. Droni si ultima generazione acquisiscono immagini surreali trasmesse negli schermi di tutto il mondo per farci vedere gli Champs-Élysées , la Porta di Brandeburgo, la Fifth Avenue, il lungomare di Rio, piazza San Pietro nel loro volto più autentico.

Sì, autentico, perché se per un attimo riusciamo ad affrancarci dalla filmografia da Apocalisse con la quale molti di noi sono cresciuti, quello che emerge è l’aspetto più autentico e “pulito” di tutti quei luoghi che fino ad una manciata di giorni fa ci arrogavamo il diritto di definire nostri nel loro basalto, nei loro sanpietrini, nella loro sabbia, nella loro terra. Siamo spettatori di questo potentissimo messaggio culturale che da Venezia a Mosca passando per Praga e Madrid sembra rivendicare a voce silente eppure altissima: ci avete costruito ma non siamo vostri. Apparteniamo solo ai vostri figli e ai figli dei vostri figli e avanti. E avanti.

Perché sebbene l’aspetto più cruento e inedito di questa guerra senza polvere da sparo sia la simultaneità, quello che invece desta speranza, e ci auguriamo una riflessione profonda, è la consapevolezza che ad un certo punto, tutto finirà. Con la conta dei morti, con quella dei guariti e il calcolo dei feriti, coloro che avranno perso molto in termini affettivi ed economici, ma finirà. E quando tutto si tradurrà in ricordo nella nostra futura memoria di persone anziane o adulte, quello che dovremo aver appreso da questo momento è che i luoghi riproposti nella nuova veste di monumenti lasciati soli in questo periodo così critico meritano di essere preservati, rispettati, studiati. Con la stessa cura e la stessa perseveranza che dovremmo riservare al nostro patrimonio artistico “rinchiuso” nei musei, alle nostre riserve naturali, alle nostre dimore storiche, ai nostri piccoli paesi con i loro vecchi e le loro stradine, a tutto quello che di straordinario c’è.

Partendo proprio dal nostro paese. Un’Italia straordinaria che oggi riscopriamo attraverso i tour virtuali sulle varie piattaforme che li propongono, un’Italia musicale che oggi possiamo godere grazie a infaticabili cantautori che in streaming si esibiscono per un pubblico serrato dietro schermi luminosi; un’Italia intellettuale che muove folti gruppi di lettura nella condivisione di libri amati, nuovi, classici. Siamo fermi nel camminare ma possiamo, forse mai come prima, intraprendere viaggi lontanissimi proprio attraverso la cultura, capace di regalarci un’astrazione da un presente nel quale non ci riconosciamo.

Quest’articolo doveva parlare di tutti i modi nei quali la cultura sta entrando nelle nostre case in questi giorni, tra i mille siti e le mille piattaforme che con una puntualità disarmante ci arrivano come messaggi whatsapp, come email, come post sui social, fonte inesauribile di informazioni.

Ma un momento di riflessione aveva più senso in questa fase di “vite interrotte”. Nessun sito, nessun libro, nessuna citazione più o meno puntuale. Più o meno colta.

Tranne questa.

L’immenso Jorge Luis Borges diceva: La storia dell’essere umano è figlia della Bibbia e dei Dialoghi di Platone. Intendeva che sono le storie a descriverci, le storie dicono quello che siamo stati, e cosa saremo. Come esseri umani, non possiamo non raccontare storie, lo abbiamo fatto attraverso l’arte figurativa, l’architettura, l’economia, la religione, madre di tutte le storie. In tutto.

Sono proprio le narrazioni nelle quali crediamo che ci spingono a fare le cose. L’uomo è fatto di carne, ma soprattutto di storie. Senza storie nelle quali credere non potremmo gestire l’attesa, incanalare l’immaginazione, subire decisioni drastiche come quelle che ci vedono costretti immobili nelle nostre dimore. La storia dell’umanità, nella sua grandezza ma anche nella sua infamia, è fatta di storie, grazie alle quali si sono generati patti che altrimenti non avremmo avuto: purezza della razza, discendenza divina degli imperatori, necessità della guerra. Tante storie.

Oggi più che mai però dobbiamo imparare a raccontare delle nuove storie, per affrontare il futuro.

Oggi, ciò che stiamo vivendo può declinarsi in una occasione che ci serva a raccontare storie inedite. Storie nelle quali la natura trovi il suo posto e si rispetti con un’osservanza divina, nella quali i luoghi straordinari creati per mano umana possano essere preservati da calche infaticabili, storie di fiducia nella scienza e nel modo corretto di gestire le informazioni.

Storie di un’umanità (e un’umiltà) ritrovata daranno senso a questo colossale – non ti muovere.

Angela Vecchione