Tu che sei addormentato
Comprendimi
Ed ora ti sollevi
lesto
e passi via sereno
fuori dalle mura della tua cittadella
Tu che chiarisci le vie.

(A. Rosselli, Cantilena (poesie per Rocco Scotellaro), in Poesie, Milano: Garzanti, 2004)

Cento anni sono trascorsi dal 19 aprile 1923, giorno in cui nacque Rocco Scotellaro.  

La sua vita iniziò a Tricarico, un piccolo borgo dell’alta Lucania che si affaccia sulla vallata del fiume Basento.

Intensa fu la sua esperienza biografica, seppur breve. Nel 1953, a soli trent’anni, fu stroncato improvvisamente da un infarto, lasciando tutti fortemente sgomenti.

Scrittore, poeta e politico italiano, animò il Meridione italiano – principalmente la Basilicata – con il suo attivismo politico e poetico.

Nacque da una famiglia molto povera: suo padre era un ciabattino, mentre sua madre era una sarta – casalinga. Nonostante le ristrettezze economiche e le difficoltà che si incontravano quotidianamente per sopravvivere, Rocco Scotellaro ebbe la possibilità di studiare, fino al raggiungimento della maturità classica.

Come si evince dai suoi scritti, Rocco ha sempre mantenuto un legame indissolubile e intenso con il suo piccolo paese, con le sue strade, con la sua casa.

Durante gli anni che lo condussero lontano da quella familiarità natale, soffrì molto. Tuttavia, ha sempre avuto piena consapevolezza – seppur dolorosa – dell’atmosfera pesante e avvelenata del suo piccolo borgo contadino, delle superbie e delle gelosie che rendevano tossico e difficoltoso il prosieguo della sua esperienza lì.

Ognuno di noi vuole essere il padrone
della nostra città medievale
ed è geloso a morte dell’uguale.
Ritorno al bugigattolo del mio paese
dove siamo gelosi l’un dell’altro.
Mi vanno cercando.
Dei topi hanno schedato il mio nome,
i falchi sono scesi in picchiata.

(Paese mio, in Rocco Scotellaro. Profilo biografico e antologico, a cura di Nicola Terracciano, p. 25)

Le gelosie e le cattiverie, però, non lo allontanarono dalle sue origini; anzi, gli diedero nuova linfa vitale per poter proseguire e costruire un saldo impegno civile e politico nel paese degli ultimi: il Mezzogiorno.

LA MIA BELLA PATRIA

Io sono un filo d’erba
un filo d’erba che trema.
E la mia Patria è dove l’erba trema.
Un alito può trapiantare
il mio seme lontano.

(R. Scotellaro, È fatto giorno, Mondadori, 1954)

A soli ventitré anni, Rocco vinse le elezioni amministrative del 1946, diventando sindaco di Tricarico, per il partito socialista di unità proletaria.

Egli – da sempre dalla parte degli ultimi – si impegnò per i quattro anni del suo mandato a far rinascere il Sud, pur nella sua profonda arretratezza economica, sociale e politica.

Carlo Levi – che lo conobbe proprio nel 1946 – ricorda così quegli anni:

«Gli anni ’46-’47 segnano la sua maturazione, in senso umano e in senso poetico. È finita la guerra, il Mezzogiorno pare si sia destato da un lunghissimo sonno, è cominciato il moto contadino, che è l’affermazione dell’esistenza di un popolo intero. In questo popolo risvegliato per la prima volta, per la prima volta vivente e protagonista della propria storia, Rocco vive la propria giovinezza; ed è il fiore di quella terra solitaria, perché il suo sviluppo di uomo è tutt’uno con il nuovo germogliare di quel popolo contadino. Con la naturale, spontanea scelta da cui nascono i capi e gli eroi, egli è riconosciuto dai suoi: il piccolo ragazzo dai capelli rossi, dal viso imberbe di bambino, è il primo sindaco di Tricarico, per volontà dei contadini».

Rocco Scotellaro partecipa come socialista, come compagno, come sindaco, con sacrifici e rischi, al risveglio del mondo contadino, ai primi scioperi, alle prime lotte che, seppur nel loro piccolo, hanno dato un prezioso contributo alla rinascita e al rinnovamento della nostra Italia. Fu un uomo che, pur vivendo lui stesso in ristrettezze, donava tutto ciò che poteva agli altri, considerando i contadini del suo paese suoi stessi pari e fratelli.

È un pastore oggi quel mio amico, ha fatto la guerra, adulto, cadente e sgangherato, ma egli è sempre senza macchia; se lo guarda la donna più bella del mondo non si copre la bocca vuota dei denti con le mani, ma l’apre e ride, più bello di tutti lui, cresciuto nel sole e nella pioggia.

(R. Scotellaro, L’uva puttanella, Laterza, 2000, p.17)

Tuttavia, questa liberazione nell’azione si interruppe bruscamente nel 1950, quando venne arrestato per una falsa accusa di concussione, truffa e associazione a delinquere.

Fu questo il più insidioso e subdolo strumento che i suoi avversari politici gli inflissero.

Quaranta furono i giorni che Scotellaro passò nel carcere di Matera, abbandonato dalle istituzioni e da coloro i quali – ingenuamente – credeva fossero suoi compagni.

Pur nella delusione e nel disincanto, trascorse i giorni in costante riflessione. Una riflessione profonda che lo portò a rivalutare tutti i passi compiuti fino ad allora, comprendendo, infine, che si era trattato soltanto di una mera e mesta illusione.

Fu proprio in quegli anni che Scotellaro cominciò a scrivere una delle sue opere maggiori – L’uva puttanella. Si tratta di un romanzo autobiografico in cui l’autore si racconta, non tanto seguendo l’ordine degli eventi, quanto piuttosto il flusso dei propri pensieri e delle proprie emozioni. Quanto più le emozioni si intensificano, tanto più il ritmo della prosa diventa calzante, come in questo passo:

Chiuso in una stanza, e un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, alla presenza della morte.

(R. Scotellaro, L’uva puttanella, Laterza, 2000, pp.73-74)

Il carcere si doveva riempire del materiale umano, prescelto dalla Giustizia, secondo la norma che vige anche nelle confraternite: il più fesso porta la croce.

Caddero tutte le parole maiuscole, in cui avevo creduto, o che, rimaste fredde, in molti, noi giovani, eravamo accorsi a riempire di calore e di amore. Fino a quando il solo in mezzo a 170 persone e poiché uscirò presto non c’è parola maiuscola che valga.

[…] Battuti dalla legge dei forti, avessero avuto almeno una religione dei deboli.

(Ivi, p.93)

La prigionia fu una parentesi esistenziale cruciale per Rocco Scotellaro.

Successivamente alla sua scarcerazione – grazie all’intervento decisivo di Carlo Levi – abbandonò definitivamente la politica e si dedicò esclusivamente allo studio, alla ricerca e alla sperimentazione. Ciò lo portò a studiare economia a Portici, all’Osservatorio di Economia Agraria diretto da Manlio Rossi-Doria. In questo modo trascorse gli ultimi anni della sua vita, e non per una scelta egoistica e individualizzata, ma perché aveva visto nello studio, nell’inchiesta e nel racconto, gli strumenti per una lotta futura che portasse le problematiche meridionali al centro dell’interesse dell’opinione pubblica nazionale e internazionale.

Rocco Scotellaro scrisse per un’autentica urgenza intima di vita e di azione. Descrisse la gioia profonda della fratellanza e della protezione contadina, descrisse i meccanismi che regolavano il mondo contadino, attraverso racconti di frammenti autobiografici e attraverso inchieste condotte sul campo. Continuò ad interfacciarsi con i contadini del Meridione, fu sempre animato dalla curiosità di conoscere, di penetrare nel profondo delle cose, di toccare con mano la precarietà sociale ed economica che contraddistingueva quei territori.

Noi lettori di oggi, soprattutto se originari del Meridione, possiamo intravedere nelle parole di Scotellaro la stessa urgenza di cambiare le cose e, allo stesso tempo, la stessa profonda consapevolezza che certi costumi e meccanismi sono purtroppo eterni.

Riconosco nelle parole di Rocco la stessa frammentazione interiore di molti miei coetanei, eternamente divisi a metà: tra la consapevolezza di dover andar via per poter conseguire i propri obiettivi e la frustrazione di non poterlo fare a casa propria.

Cambierà mai tutto ciò? Riusciremo mai ad invertire la rotta e ad annullare il divario che – da sempre – ci separa dal Nord? O non si tratta solo di questo?

Anna Rita Ambrosone

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