“L’empatia corre il pericolo di produrre una sostanza” (Adriana Cavarero)
Ci ho impiegato un po’ per mettermi a scrivere questa recensione. Il romanzo l’ho letto immediatamente, perché avevo letto il precedente di Alessandra Carati (E poi saremo salvi), molto bello, ma anche per quell’intervista con la scrittrice Teresa Ciabatti, in cui le domande erano quelle giuste, disturbanti, dritte al cuore di quello che Carati ha cercato di fare attraverso questo romanzo. Avevo subito buttato giù qualche paragrafo: questo libro di Alessandra Carati è un libro “reale”, nel senso che contiene atomi instabili di realtà, come gli effetti delle sentenze di assoluzione o di condanna all’ergastolo che ristabiliscono la bilancia tra bene e male ma continuano a produrre alterazioni, sconvolgimenti, sofferenze. Ad ogni pagina, scrivevo, è anche una specie di porta, come in una ristrutturata solo a metà, dove resta una porta che dà su una stanza, l’unica in cui tutto è rimasto come prima, scuro, polveroso, caotico. Carati ad ogni ricostruzione dei fatti, della voragine dei fascicoli sugli omicidi di Erba, ad ogni pagina in cui tutto è stato faticosamente levigato e ridotto all’essenziale, ci fa affacciare anzi piombare in quella stanza, quella delle ombre più nere, in cui il male (che si compie e di cui si può essere vittime anche se si è colpevoli) non viene prima o dopo il bene, ma sta accanto, a un passo, in uno sguardo che è capace di guardarli entrambi: il bene e il male, la colpa e l’innocenza. Nello spazio in cui sono entrambi condannati a vivere, l’agnello e la tigre, avrebbe detto Neige Sinno, autrice del romanzo vincitore del Goncourt, Triste tigre.
Però ero in attesa di una pista che mi avrebbe aiutato a mettere assieme tutte le impressioni e pezzi di idee. Vedevo chiaramente che il romanzo di Carati non era un romanzo alla Carrère, la versione letteraria di una pagina di cronaca nera, una molto brutta, il massacro di Erba. Cosa, allora?
Intuivo che era soprattutto una storia, il racconto di una vita, di una banale unicità: di Rosy. “Rosa Rosina Rosy, una bambina di cinquantacinque anni”.
Dicevo la pista. L’ho trovata leggendo un saggio di Adriana Cavarero sulla scrittura, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, un saggio poco conosciuto, pieno di spunti, essenziale per capire ed avere il coraggio di reinterpretare la narrazione. Ma per arrivare al saggio di Cavarero devo fare ancora un passo indietro, a I margini e il dettato, ultimo testo di Elena Ferrante. In questo piccolo saggio Ferrante nasconde e conficca la chiave di lettura di L’amica geniale (rispetto alla quale lo slogan famoso Sarratore uomo di merda, suona davvero ridicolo). E questa chiave di lettura viene proprio dal testo di Cavarero. Dalla storia di due operaie, due donne qualsiasi, ognuna però con la sua unica ed insostituibile storia. Amalia ascolta la sua amica Emilia raccontare la sua storia, ascolta il desiderio dell’amica di essere raccontata, di quella storia esiste anche un quaderno autobiografico, composto da Emilia, che alla fine sarà però assolutamente prescindibile, almeno per Cavarero. Le storie sono orali, nascono così, al limite il testo, che in letteratura deve esistere, è pure, per certi aspetti, innecessario. Quell’assottigliarsi del testo sarà la linea asciutta di Carati. Quasi una confessione della sua necessaria superfluità. Ferrante invece fantasticherà a lungo su quelle pagine autobiografiche, su quelle frasi staccate, di cui resta un’eco nelle misteriose pagine autobiografiche di Lila. Grazie alle pagine di Cavarero, Ferrante ha elaborato l’idea dell’amicizia narrativa, dello scambio del racconto delle proprie storie, l’autobiografia (quella di Lenù) che si intreccia alla biografia (di Lina), la narrazione che si sposta continuamente sull’ autonarrazione: quest’asse instabile. La consapevolezza della propria storia che si acquisisce appieno solo quando qualcun altro la canta per noi.
Se del testo di Cavarero, Ferrante è ipnotizzata dal concetto di altra necessaria (“un altro fosse ciò di cui avevo bisogno per uscire dai tre libri precedenti e tuttavia restarci dentro”); io invece continuo a ripetermi la frase che ho citato all’inizio di queste pagine: l’empatia come il pericolo di produrre una sostanza. Per il “pericolo”, ovvero quel disturbante che sta ai margini del dettato, quel disturbante che è la miccia dei romanzi di Ferrante; per quel “produrre una sostanza”, che mi suggerisce una secrezione, le parole come una sostanza in cui resti invischiato; per la “sostanza”, quando le parole vanno oltre le parole; e per quell’”empatia”, una specie di controsenso o controintuizione in cui pericolo e invischiarsi si collegano, discendono e generano una scia positiva: empatia, ovvero avvicinamento. È la miscela di Ferrante assolutamente. E queste stesse parole mi guidano nella lettura di Rosy di Carati. Anche qui c’è una sostanza scomoda che si è prodotta, difficile, pantanosa; anche qui la materia non è solo letteraria; anche qui tutto viene e genera empatia verso Rosy.
Rosy con il suo ritardo mentale, la sua mancanza di autostima, la sua acquiescenza, la sua tendenza alla confabulazione, l’incapacità di legare cause ed effetti, la sua vulnerabilità. Amplificate e condannate lì, in uno dei posti più squallidi che l’uomo abbia immaginato.
Carati ha studiato tutte le carte del processo, faldoni su faldoni, lo ha fatto nel momento in cui c’era uno spiraglio, quello aperto dall’istanza di revisione del processo. Quasi prima che la storia si chiudesse, un attimo prima che la morte processuale anticipasse la morte fisica, la fine della storia. Perché come scrive Cavarero: solo l’altro che sopravvive potrà disporre e raccontare la storia di ognuno di noi. La domanda di riapertura e revisione del processo che dopo la pubblicazione del romanzo sarà respinta, confermando la condanna all’ergastolo. La porta e le sbarre si sono chiuse, ingoiando la vita di Rosy e di suo marito Olindo, anche lui accusato della strage. Come se la morte sia già avvenuta, o una quasi morte. “In carcere la vita è sottratta pezzo per pezzo, il reato si paga con il tempo; le persone si rassegnano, per poi spegnersi del tutto.” Il carcere, quello duro, con isolamento, con un buco per gabinetto, che, quando ti trasferiscono come è successo a Rosy e trovi i sanitari ti inginocchi ad accarezzarli.
Carati si è presa la responsabilità di narrare la storia di Rosy, si è presa la responsabilità di quell’io ti racconto affinché tu mi possa raccontare; di rendere tangibile attraverso il racconto l’identità di Rosy. Cavarero spiega bene come la rivelazione umana sia patrimonio di un altro. L’altro necessario è un finito che rimane irrimediabilmente un altro in tutta la sua insostituibilità, fragile e ingiudicabile, del suo esistere. E se Rosy ha parlato è stato anche per il suo desiderio così umano di nascere alla sua vera identità attraverso il racconto di Carati. “Fra identità e narrazione c’è infatti un tenace rapporto di desiderio”: il desiderio di Rosy viene dalla perdita, ma non è più la perdita di Olindo (quella che nella sua ricostruzione l’ha spinta a confessare pur di rimanere accanto ad Olindo, quello del sogno di una cella matrimoniale, il sogno grottesco di una specie di creatura mostruosa a quattro zampe Rosy-Olindo); viene dal suo desiderio claudicante, inconfessabile di mettersi assieme, di aggregare i pezzi, da quel triste desiderio di unicità. Il desiderio di Rosy di raccontare è già tutto custodito, inaccessibile eppure spropositato, nel primo incontro con Carati in cui attacca a parlare per due ore senza pause, “Mi piacerebbe che tu ascoltassi”. E la difficoltà di Carati a non farsi investire dalle parole di Rosy, come se in quel momento anche lei, la scrittrice, fosse solo un’estensione del suo pensiero.
Non è un caso che Carati scelga di raccontare Rosy non Olindo, né la strage di Erba: perché l’attenzione al particolare, alla singola storia, alla sua necessità e dignità, all’incrociarsi delle storie (perché il mondo è pieno di storie che aspettano solo di essere raccontate) è, senza scadere nello stereotipo, una cosa femminile, viene dal “carattere narrativo” delle relazioni tra donne. Quando a Rosy mancano le parole, cerca spaesata il suggerimento, la parola sulla bocca di Carati, e se è quella giusta la sua adesione è “euforica”. E femminile è la necessità di trasferire questa storia nel terreno della narrazione, di allontanarsi dal campo della giustizia e quindi dell’universale; e portare il racconto di quella vita nello spazio narrativo del racconto di vita e non del confronto di idee, delle opposizioni, del bianco e nero; alla periferia della vita e dei suoi ideali altisonanti, come la periferia di Milano dove avveniva la storia di Emilia e di Amalia.
Farlo è una lotta con il testo, tra margini e dettato, a rendere i contorni più definiti, e a ripensarci perché gli appunti presi tra un incontro e l’altro sono un tradimento ed è meglio inseguire solo la voce, la veridicità della voce di Rosy. Perché una storia può fare solo questo: rompere la voragine della normalità che ogni giorno consuma il nostro desiderio di unicità. Perché solo questo si può dire: sì è proprio così che è andata” (H. Arendt).
Silvia Acierno
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