TUTTO SE SCORDA
Tutto, tutto se scorda,
tutto o se cagna o more;
e na chitarra è ammore,
ca nun tene una corda.
Ogge si’ tu: dimane,
forze, n’ata sarrà:
e po’ n’ata, chi sa,
si tiempo ce rummane.
Uocchie celeste o nire,
culore ’e giglio o ’e rosa,
sempe, sempe una cosa,
sempe ’e stesse suspire!
Si, suspiranno, io dico:
“Quanto mme si custata”!
Tale e quale a quacc’ata
tu suspire cu mmico…
Tutto, tutto se scorda,
tutto o se cagna o more,
e na chitarra è ammore,
ca nun tene una corda.
Ma, tremmanno, sta mano
cierte vote se scorda:
e torna ’a primma corda
a tentà, chiano chiano.
E nu suono ca sceta
tante cose, o addurmute,
o luntane, o fenute,
esce ’a sotto a sti ddeta…
[Tutto, tutto si scorda / tutto o si cambia o muore / e l’amore è una chitarra / che non ha solo una corda. / Oggi sei tu: domani / forse sarà un’altra / e poi un’altra chissà / se resta ancora tempo. / Occhi celesti o neri, /colore di giglio o di rosa, / sempre, sempre la stessa cosa / sempre gli stessi sospiri. / Se sospirando io dico: / “Quanto mi sei costata” / allo stesso modo di un’altra / tu sospiri con me. / Tutto, tutto si scorda, / tutto o si cambia o muore, / l’amore è una chitarra, / che non ha solo una corda. / Ma, tremando, la mano / certe volte si incanta: / e torna piano piano / a tentare la prima corda. / È un suono che sveglia / tante cose, o sopite, /o lontane, o finite, / a cantare esce di sotto le dita.]
trad. G. Spagnoletti
PIANEFFORTE ’E NOTTE
Nu pianefforte ’e notte
sona, luntanamente,
e ’a museca se sente
pe ll’aria suspirà.
È ll’una: dorme ’o vico
ncopp’a sta nonna nonna
’e nu mutivo antico
’e tanto tiempo fa.
Dio, quanta stelle ncielo!
Che luna! E c’aria doce!
Quanto na bella voce
vurria sentì cantà!
Ma sulitario e lento
more ’o mutivo antico;
se fa cchiù cupo ’o vico
dint’a ll’oscurità.
Ll’anema mia surtanto
rummane a sta fenesta.
Aspetta ancora. E resta,
ncantannose, a penzà.
[Un pianoforte di notte, /suona, lontano, /e la musica si sente / per l’aria sospirare. / È l’una: dorme il vicolo / dentro questa ninna nanna / di un motivo antico / di tanto tempo fa. / Dio quante stelle in cielo! / Che luna! E che aria dolce! / Come una bella voce / vorrei sentire cantare! / Ma solitario e lento / muore il motivo antico; / si fa più buio il vicolo / dentro l’oscurità. / L’anima mia soltanto / rimane a questa finestra / aspetta ancora. E resta, / incantandosi, a pensare]
trad. G. Spagnoletti
Artista multimediale ante litteram, Salvatore Di Giacomo passava con disinvoltura dal teatro alla novella, dall’anonimo articolo sul “Corriere di Napoli” alla canzonetta musicale alle gare di Piedigrotta. Il suo eclettismo su più fronti, primo fra tutti quello lavorativo, non può non stupire chi dell’intellettuale, e più ancora del poeta, abbia un’immagine troppo rigida. È, invece, proprio la vena genuinamente popolare che colpisce nelle sue brevi poesie, la semplicità di chi prova a comunicare emozioni allo stato puro, senza ambizioni, se non quella di tradurre in parole le proprie sensazioni. Non è forse questo il primo obiettivo della poesia, di rendere comunicabili pensieri e sentimenti comunemente ritenuti “intraducibili”? Salvatore Di Giacomo, nato e vissuto a Napoli a cavallo del 1900, possedeva innata tale dote ed essa traspare soprattutto nelle sue tante poesie in dialetto napoletano.
Inevitabile la scelta del ·vernacolo per dipingere paesaggi e situazioni della città partenopea, (colta nella sua vita quotidiana). Il napoletano come lingua più diretta e schietta dell’italiano, più adatta per un modo di fare poesia che ha nella leggerezza del tocco il suo maggiore pregio. È come se i versi venissero da sé, uno dopo l’altro, senza che il loro autore abbia avuto bisogno di pensarci, di scegliere tra un vocabolo e il suo sinonimo. Si leggono con grande scioltezza, e pare quasi di avvertire, sotto di essi, una musica dolce e melodiosa, che: lentamente li accompagna, proprio come ’o mutivo antico di Pianefforte ’e notte. Tale musicalità non ha mancato di ispirare vari musicisti, che hanno provato a trasformare queste poesie in canzoni.
E se ne potrebbero ricavare anche dipinti o acquerelli, visto che le immagini sono già potentemente create da Salvatore Di Giacomo in modo colorito e realistico. Scene di primavera e di paesaggi incantati, di cieli limpidi e mare illuminato dalla luna, scene di trattorie in aperta campagna a maggio, o di strade popolate e piene di vita. Bastano pochi, sapienti accostamenti di parole per trasformare in poesia una vicenda banale e già sentita: la musica di un pianoforte in tarda notte, immagine comune e poco originale, evoca, da subito, mille suggestioni, sposandosi con la malinconia del protagonista, intristito dai suoi ricordi. Su tutto domina l’amore, lieve e inevitabile, che va e viene senza sosta, scompare e poi ritorna, senza accettare resistenze.
È questo il tema dominante di Tutto se scorda, in cui la grazia consueta pare quasi una sottovalutazione delle sofferenze d’amore. Ma quest’impressione dipende dallo stile di Salvatore Di Giacomo, che appena accenna i suoi pensieri, li lascia affiorare per un attimo, come sospiri casuali e spontanei. Uno sguardo al mondo fatto di rapide e intense occhiate, e magari un po’ distratto certe volte, quando prevale il manierismo e l’ispirazione si spegne. Ma sempre rimane un sorriso per metà malinconico e per metà scherzoso, come quello dei due giovani de Na tavernella, richiamati improvvisamente alla realtà da un alito di vento.
Roberto Tucci
Salvatore Di Giacomo (Napoli 1860-1934) poeta italiano. Si iscrisse alla facoltà di medicina, ma smise subito di frequentarla per dedicarsi al giornalismo e alla letteratura. Fu qualche mese in Germania, di dove mandò al «Corriere del mattino» varie novelle fantastiche, che ricordavano i racconti romantici tedeschi ma anche le novelle della scapigliatura. Autore di volumi eruditi (Cronaca del teatro San Carlino, 1891), fu narratore discontinuo, ma dai tratti estremamente delicati e toccanti: Minuetto settecentesco (1883), Pipa e boccale (1893), Novelle napolitane (1914), L’ignoto (1920). Nel suo teatro, da Malavita – pubblicata nel 1889 col titolo ’O voto e tratta dalla novella Il voto – ad Assunta Spina (1909) e a Quand l’amour meurt (1911), risalta l’elemento patetico, a conferma della natura essenzialmente lirica dello scrittore. I drammi sono ricavati da novelle o da un gruppo di sonetti, come A San Francisco: vi si nota una tendenza a dilatare gli effetti, a prolungare le parti corali e i duetti delle confidenze, a rimandare il più possibile lo scioglimento del nodo tragico.L’esperienza narrativa e quella teatrale, col loro verismo minuto e liricamente effuso, rimandano alla produzione in versi, dove il dialetto, colto, letterario, assume il valore di testimonianza di un mondo che va scomparendo. La poesia di Di Giacomo, da ’O funneco verde (1886) ad Ariette e sunette (1898) e a Canzoni e ariette nove (1916), non è priva di squilibri, di effetti a volte facili, ma le «sensazioni labili e ineffabili» sono rese con un’arte raffinatissima che giunge, come è stato detto, alla dissoluzione del verso e alla ricomposizione di una «metrica interna», a una musica più profonda e difficile di quella affidata al naturale andamento cantabile.
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In libreria
Salvatore Di Giacomo
Poesie
BUR, 2015 (Collana: Poesia)
A cura di D. Monda
663 p., brossura
€ 18,00