Incespicare, incepparsi / è necessario /
per destare la lingua / dal suo torpore.
Eugenio Montale, Incespicare
Toccare i confini della poesia, forzarli è diventato un atto vitale necessario
per uscire da modelli stilistici ( ermetismo, neo-orfismo, la cosiddetta «parola innamorata») che tendono a chiudersi.
Una propensione della poesia a spostarsi verso la prosa si era comunque notata da tempo e soprattutto in altre letterature. Già Baudelaire, nella dedicatoria de Lo spleen di Parigi ad Arsène Houssaye, scriveva nel 1860: «Chi tra di noi non ha, nei suoi giorni ambiziosi, sognato il miracolo di una prosa poetica, musicale senza ritmo e senza rima, così duttile e così risentita da adeguarsi ai movimenti lirici dell’anima, agli ondulamenti della fantasticheria, ai soprassalti della coscienza?»
I poeti delle ultime generazioni – Sereni, Giudici, Raboni, Cucchi, Magrelli, Buffoni – , che hanno meglio saputo interpretare il passaggio in Italia a una società e a una cultura di massa, dipendono da questa scelta: il nostro non è e non può essere un mondo poeticizzato e mitico, bensì un universo bloccato e coartante. Si tratta di poesie che scartano ogni esca di favole consolatrici, mentre una certa sezione di realtà viene guardata con occhi solleciti a rappresentarla come il dominio delle esperienze sempre lambite, sfiorate, ma mai messe a segno. L’io resta in primo piano, centrato o decentrato che si presenti, nel momento stesso in cui fa topografia, traccia mappe (planimetrie), descrive ed evoca luoghi intorno a sé, nello spazio del suo orizzonte visibile e vivibile:
Sporgendomi di poco copro
tutto l’isolato
garante a buon diritto
del traliccio con il pino,
delle case, dei ponteggi
delle nuove costruzioni.
( … )
Personalmente, cerco di ragionare sul senso del mio essere qui (un quartiere anonimo di Mogliano Veneto, piccolo borgo dell’interland mestrino) e non altrove, verifico e soppeso lo stato dei miei rapporti con la dimora e la lingua che mi ospitano:
S’è storta la trave di casa:
restano i bordi,
le tradizioni di famiglia,
il fiato dei soldati
e le bende.
( … )
La casa, meglio una bicocca, diventa il luogo, il correlato oggettivo della necessità di dare collocazione a un io disperso nell’altrove, finito e tremendo, dei grandi eventi distruttivi della storia; un microcosmo cresciuto sulle radici lunghe della vita famigliare, in cui immergersi ed esigere valore:
Avremmo dovuto imparare,
rinvenire la traccia intonacata
– la data, il nostro nome-,
rimestare le malte dentro ai secchi.
Indago, rovisto, tocco reliquie domestiche per giustificare la mia esistenza o, forse, per cancellare la colpa di esistere. L’opzione individuale, che descrive una morbosa, e per alcuni aspetti inedita, claustrofilia, sostituisce
i roboanti conflitti collettivi dei decenni scorsi, a fronte di una
storia che ribalta continuamente in avanti, non facendo più da sfondo
alle immagini del presente.
Le parole dei poeti sono armi ormai spuntate, non all’altezza della situazione: «Salta su/ il più buono e il più inerme, cita/ E di me si spendea la
miglior parte/ tra spasso e proteste degli altri – ma va là – scatenati» (Vittorio
Sereni, Una visita in fabbrica).
Planimetrie
L’occhio mi cadde una mattina
con orrore. Fissavo – bocca
e naso appesi a un amo –
la disattenzione della gente.
Allora torsi a canapo
la testa e feci il più:
ché tolsi l’altro pure,
ridicolo, spaiato.
Adesso mi porto col destro
in vece del sinistro, e viceversa.
E siccome sono identici
non è facile distinguerli.
…
(Avremmo dovuto imparare,
rinvenire la traccia intonacata
– la data, il nostro nome –
rimestare le malte dentro ai secchi.)
La casa
E dire m’era perso ieri sera,
il capo a mento fisso sul cuscino,
un ciattio di bibattini, di là
in cucina, di snodi digrignanti.
Allora avrei voluto parlarti,
sentirti vicino, mostrarti
nel sangue come perduri
un’abitudine di morte.
Ma oggi, nella fissità della calcina,
s’attizza un ceppo di mimosa. E forse
non è cosa dentro casa far da sé
con la propria diffidenza.
In fondo si vale di relitti, di forme
macerate. Stretti alla cornice
ogni notte
manovriamo con gli infissi.
Sbaglio per sbaglio, meglio
scoprirsi – a morsi magari.
Riguadarsi
per angoli
e fessure gomito
a gomito con i nostri nemici.
Giovanni Turra
Giovanni Turra è nato a Mestre nel 1973 e risiede a Mogliano Veneto. Insegna materie letterarie al liceo. Ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Italianistica presso Ca’ Foscari. Ha vinto l’edizione 2007 del Premio Cetonaverde Poesia, con Mark Strand e Valerio Magrelli. Ha pubblicato le raccolte di poesia Planimetrie (Castel Maggiore, Book, 1998), Condòmini e figure, in Poesia contemporanea. Nono quaderno italiano (Milano, Marcos y Marcos, 2007), Con fatica dire fame (Milano, La Vita Felice, 2014). È stato incluso nei volumi antologici L’Opera Comune (Borgomanero, Atelier, 1999) e Transiti (Venezia, Amos Edizioni, 2001). Suoi versi sono apparsi su riviste specializzate italiane ed estere, cartacee e telematiche; su tutte «Poesia», «In Forma di Parole», «Journal of italian translations», «Nazione indiana», «Le parole le cose». Si è occupato, tra gli altri, di Francesco Biamonti (Colloquio con F.B., in F. Biamonti, Scritti e parlati, Torino, Einaudi, 2008) e Luciano Cecchinel (Reminescenze ed esorcismi nella poesia di L.C., in La parola scoscesa. Poesia e paesaggi di Luciano Cecchinel (venezia, Marsilio, 2012). Sua la curatela de Le vie della città di Emilio Cecchi (Venezia, Amos Edizioni, 2004).
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