No. Questo non è un romanzo.
Sharon e mia suocera è il racconto, sotto forma di diario, della vita quotidiana di una palestinese a Ramallah tra il novembre 2001 e il settembre 2002, durante le ripetute invasioni israeliane della città. Il libro non nasce, dunque, con il proposito di una pubblicazione, ma lo diventerà solo più tardi e non proprio per volontà della protagonista, nonché scrittrice. Ma andiamo con ordine…

Suad Amiry nasce nel 1951 a Damasco, da madre siriana e padre originario di Jaffa. Cresce tra Amman, Damasco, Beirut e il Cairo. Studia prima a Beirut e poi all’Università del Michigan, specializzandosi ad Edimburgo. Diventa un’importante architetta e fonda il Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah. È scrittrice “per caso”, architetta per passione, amante dell’Italia, dove viene spesso in visita con suo marito Salim Tamari e, cosa più importante e che mi pare necessario sottolineare, è stata membro influente dei colloqui di pace israelo-palestinesi a
Washington tra il 1991 e il 1993.

È stata Luisa Morgantini, ex vicepresidente del Parlamento europeo, cara amica della Amiry, ad intuire il valore di quei diari che erano dapprincipio semplici email cariche di ironia, ma anche di malinconia ed emotività, scevre da ogni retorica. Così le email-diario arrivano da Feltrinelli, che le rende libro e le pubblica battezzando la Amiry scrittrice.

Questo diario dai Territori occupati e gli altri suoi scritti sono quel genere di testimonianze che, per la nitidezza dei ricordi e la limpidezza delle descrizioni, oltre che per quella forza di carattere che è dimostrata quotidianamente dai protagonisti- tutti verissimi- hanno permesso di gettare una luce nuova su quella che retoricamente viene chiamata “la questione palestinese”.

Ed ecco, signore e signori, che nella letteratura italiana irrompono anche questi nuovi protagonisti.

Senza considerare le rare ma ben note eccezioni, come Ghassan Kanafani e il suo Uomini sotto il sole, pubblicato in Italia da Jouvence già negli anni Ottanta o La nave e I pozzi di Betlemme di Giabra Ibrahim Giabra, pubblicato negli anni Novanta, l’editoria italiana ha nutrito scarso interesse per gli scrittori palestinesi e arabi in generale. La tendenza è cambiata, lo sappiamo bene, negli ultimi dieci, quindici anni, ma del resto non c’è da stupirsi che la nostra editoria si sia preoccupata tardi del “fenomeno Palestina”, sempre per usare dell’ironia. D’altronde è l’Italia tutta
che si è messa davvero tardi in ascolto della Palestina.

Mi sono stupita, durante un incontro a cui ho partecipato ormai qualche anno fa, a sentir raccontare Luciana Castellina- ex deputata, eletta anch’essa al Parlamento europeo- della sua personale esperienza di “incontro” con questa terra. Siamo nel 1967, anno della Guerra dei Sei giorni e lei come moltissimi altri in Italia- non sapeva bene cosa fosse la “questione palestinese”. Eppure la Palestina era occupata già da vent’anni. Quell’anno avvenne la svolta storica, ossia cominciò la prima resistenza armata palestinese ed improvvisamente il mondo seppe che esistevano anche loro.
Luciana Castellina fu inviata da “Rinascita”, l’allora settimanale del Partito Comunista, ad Amman perché lì si sarebbe tenuto uno dei tanti convegni sulle sorti di Gerusalemme, subito all’indomani della guerra. Alcuni palestinesi chiesero alle delegazioni di giornalisti internazionali se volevano fare visita, per poterli vedere con i loro occhi, ai campi profughi. E così Luciana Castellina e gli altri si recarono a Irbid, uno dei campi profughi in Giordania. Mentre erano lì vi fu un raid aereo israeliano e, durante il bombardamento feroce che durò circa mezz’ora, trovarono ripari occasionali sotto le macchine. Dopodiché si recarono tutti all’ospedale più vicino per accertarsi di stare bene.
Mentre erano in sala d’attesa, cominciarono ad arrivare numerosi feriti ed anche morti. Un medico palestinese, rientrato nel suo Paese dall’America, passando accanto a Luciana le mise in braccio una bambina morta mezz’ora prima sotto le bombe e le disse: «Così capirete finalmente cos’è la questione palestinese».

La maggior parte delle memorie palestinesi sono intrise di storie tristi proprio come questa. Si tratta di memorie disilluse, amareggiate. Da una parte troviamo chi come Susan Abulhawa sceglie di dare una forma romanzata a queste memorie, come in Ogni mattina a Jenin di cui avevo parlato in un’altra recensione, ma altri, come Suad Amiry, raccontano con una leggerezza tutta speciale.

E dunque i palestinesi esistono. Pare vivano nelle loro città, con i loro alberi d’ulivo e i loro saber, dentro quelle case non ancora abbattute dai bulldozer, circondate dal Muro o tra un check-point e l’altro; si spostano solo grazie a speciali permessi, controllati ovunque da soldati armati fino ai denti; litigano di tanto in tanto con qualche vicino rumoroso e invadente, sopportano anche loro parenti petulanti o invidiosi, amano i loro mariti e le loro mogli. Sono vittime di rappresentanti corrotti, di politici incapaci. E alcuni sono costretti a sopportare una lunga convivenza con la propria suocera, un’occupazione questa anche peggiore di quella israeliana…

Cari lettori, non si può che usare l’ironia per presentare questo libro. Perché l’ironia ne è la sostanza e la forza!

Queste pagine brulicano di una popolazione incessantemente all’opera per non soccombere il cui miglior pregio è la resilienza, il cui peggior difetto è la resilienza.

La leggerezza della prosa della Amiry sorprende così come sorprende che la vita possa continuare uguale, meravigliosamente prosaica, anche sotto “doppia” occupazione. “Contemplare il proprio dramma come dal di fuori e dissolverlo in malinconia e ironia” come ci ha insegnato tanto bene Calvino nella sua lezione americana proprio sulla Leggerezza:

“Proprio qualche giorno prima che i nuovi vicini si trasferissero nel nostro quartiere, mi lamentavo con le mie amiche Vera, che vive ad al-Bireh, e Rima, che abita in una splendida casa antica nel quartiere di Sheikh Jarrah a  Gerusalemme, di come da noi la vita si sia fatta impossibile. I cumuli di macerie sono diventati il tratto caratteristico del paesaggio, qua e là compare un marciapiede smozzicato, il che trasforma in una vera sfida, anzi in un’impresa disperata, il tentativo di camminare in linea retta. Il grigio polvere è ormai il colore nazionale, mentre il verde è una rarità e l’aria fresca un’illusione. La lista delle lamentele ha continuato ad allungarsi, perché- come avrebbe detto mio marito Salim- non riuscivo a smettere di “brontolare”. Il quartiere dove abitiamo, al-Irsal, può tuttora essere descritto come una delle “più belle zone residenziali” di Ramallah e al-Bireh. È abbastanza piacevole, sicuro e accogliente per i bambini, vale a dire che i bambini possono giocare tranquillamente nelle strade, con il risultato che decide e decine di ragazzini corrono a destra e a manca urlando e azzuffandosi. […] Durante la notte di martedì 4 dicembre nel quartiere sono arrivati dei nuovi vicini. A dispetto dell’ora antelucana e benché fossimo in pieno Ramadan (periodo in cui la gente si alza tardi), hanno fatto un sacco di chiasso e strepito e non hanno dimostrato alcun riguardo. Erano un gruppo piuttosto numeroso e si muovevano su veicoli enormi, poco sensibili, diciamo così, all’ambiente e alla convivenza civile. Alcuni di loro si sono accampati nello spazio libero davanti a casa nostra, vicino ai fili per stendere della moglie del mukhtar, a pochi metri dal negozio di gelati, dall’altra parte della strada. Gli altri erano a bordo di bulldozer, le cui vibrazioni facevano tremare il terreno sotto i piedi. Si sono fermati e in quattro e quattr’otto ci è sembrato che si installassero nell’edificio di fronte alla casa di Umm Maher, proprio davanti alla portafinestra della nostra cucina. Siamo rimasti tutti in silenzio a guardarli da dietro le finestre chiuse, attenti a non fare il minimo rumore, spostandoci da una stanza all’altra per osservare da vicino ogni loro movimento. Più tardi, quella notte, abbiamo finito per addormentarci con la testa che ci girava. Al risveglio, ci siamo trovati immersi in un silenzio profondo, un silenzio mortale, un silenzio pauroso, un silenzio che ci ha fatto capire che i nuovi vicini erano dei corpi estranei […] L’unica violazione di questo silenzio mortale la voce spettrale proveniente dall’altoparlante: mamnou’al-tajawol khatta esharen akhar, divieto di circolare fino a nuovo ordine.”

Antonia Frascione

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