Solo un ragazzo, solo un figlio, una madre, un padre. Le sorelle.

Una famiglia.

Siamo abituati a pensarci come insieme, un sistema con le sue crepe sì, le sue inevitabili contraddizioni, ma alla fine c’è un collante che accorpa coloro che fanno famiglia.

A volte questa colla dell’appartenenza a un nucleo perde forza e il sistema si slabbra, solo che lo fa probabilmente prima di quando ce ne accorgiamo. Avviene – un clic impercettibile – una perturbazione, una reazione a catena poi piccoli o grandi crolli, infine tutto è cambiato.

In questa storia, collocata nella dimensione che siamo abituati a chiamare del “normale”, non c’è niente di eclatante. La natura sfumata e mite a Cave, sassi, alberi, un fiume. La neve che attutisce, sole fiacco che non riscalda. Ragazzi dai caratteri confondibili, cappucci sulla testa, la difficoltà di crescere e essere adeguati, adeguati a cosa? Alle aspettative? Alla fotografia mentale incongrua e imprecisa che gli altri hanno di noi? Essere il bravo ragazzo, quello che non crea problemi?

Case, negozi, la scuola, la discoteca.

Un padre professore, una madre che come ogni madre non può sopravvivere alla morte di un figlio. C’è sempre, in una madre che perde un figlio, una morte interiore; la vitalità inaridita, l’assurdo che si dilata e fa divenire tutto assurdo fuori, dentro. Una persona che si avvicina, una ragazza che non ti aiuta a capire ma ad essere diverso forse, a uscire da te.

Cosa c’è dietro il silenzio, la solitudine di un ragazzo?

Lo spauracchio di tutti noi che cresciamo figli: la diversità, non importa poi quale. Cosa c’è che non capiamo dei nostri ragazzi, quanta responsabilità hanno le ultime generazioni di genitori di questo cuscinetto, della membrana che si è messa di mezzo, che occulta la cosa più semplice: sono tuo figlio. Questo sono. Non la tua proiezione, non la tua gratificazione. In questa storia c’è solo bisogno di perdono, ed è semplice perdono che si affaccia: a tratti, come tutto qui dentro, sfumato, non abbastanza eclatante da fare in tempo a salvare, ma c’è, ed è la cura, quando arriva.

Elena Varvello in Solo un ragazzo ha perfezionato la sua scrittura netta, morbida, mai forzata. Non ha niente di più niente di meno di quello che ci vuole per raccontare questa storia. A volte si rarefà, diviene poetica, altre usa parole così quotidiane, quasi violente in un contesto dove ogni piccola uscita dalla traccia fa sobbalzare. E non fa sobbalzare invece il dolore, che è carsico, un rivo nascosto, un basso continuo, quello che si trascina in alcune vite, così costante, da sembrare che non faccia male. A suo agio nella rappresentazione di questi mondi dove la tenerezza e la violenza sfociano l’una nell’altra, si trasformano e ci trasformano in universi umani continuamente in bilico, l’autrice regala un’ulteriore, convincente prova, della sua capacità narrativa.

Anna Bertini

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