“L’abisso di errori in cui viviamo nei riguardi delle donne e dei rapporti con loro” Sonata a Kreutzer, Tolstoj

Riunisco qui in modo istintivo tre titoli: La morte ci fa belle, un piccolo saggio di Francesca Serra, uscito nel 2013 con Bollati Boringhieri, Chi ha ucciso Anna Karenina? di Nadia Fusini, studiosa di letterature comparate, rieditato da minimum fax, e l’ultimo lavoro di Francesco Piccolo, Son qui: m’ammazzi. La morte è evidentemente un denominatore comune, ma non una morte qualsiasi: una morte perversa e crudele, un omicidio che si reitera ogniqualvolta sfogliamo quelle pagine, le pagine di quei classici su cui Serra, Fusini e Piccolo costruiscono la loro visione o teoria. Come se stessimo ripetendo sempre lo stesso atto, bloccati nel tempo, perché nonostante il futuro siamo intrappolati in una cultura patriarcale, che sembra essere la vera fenice. Nonostante il futuro siamo ancora tutte un po’ Emma o Anna, quella donna esausta e ribelle a cui sembra di essere con le spalle al muro.

Queste eroine sono così morte che Alessandra Sarchi le vuole vive, e non ci pensa due volte a riscriverne la storia e il finale (Vive). Una morte letteraria che anche quando sembra il destino, una malattia o un suicidio, l’arsenico o le rotaie, avviene sempre per mano dell’uomo e della società apparentemente neutrale, distratta o partecipe, eppure patriarcale nel midollo. La vittima, e non ci giro più intorno, è la donna. Anche se Lucia, quella dei nostri Promessi sposi, a cui Manzoni mette in bocca la frase di resa, ammazzami, che Piccolo ha scelto come titolo, riesce a salvarsi. Arresa e inerme di fronte all’Innominato, specie di sunto di questo potere maschile collettivo, Lucia riesce a fermare la mano del carnefice, a farla tremare, a farlo dubitare e ad arrivare così al lieto fine.

La vittima è la donna o piuttosto quello che c’è della donna nei personaggi femminili che di volta in volta appaiono sulla scena dei romanzi, grandi classici della letteratura universale, fino a Buzzati e Starnone. Perché in fondo quella donna altezzosa, sognante, suggestionabile, insaziabile, eccitabile, anzi sovraeccitabile, adultera, ingannatrice, isterica, angelo o demone, innocente o perversa, algida e immacolata o abietta e peccaminosa, quella donna che l’arte maschile ha contribuito a mineralizzare e fissare, è solo una marionetta, un pericoloso artefatto. Quell’ossessione da cui l’uomo non riesce a scappare. Sempre ricettore, cera da modellare. Misura delle paure dell’uomo di essere sbeffeggiato, tradito, non amato, ingannato, di perdere la spina dorsale in un corpo a corpo con l’altro uomo, con il perenne rivale. La paura di uscire da quella storia che deve essere scritta dagli uomini. Alla fine del romanzo e della sua agonia, Emma Bovary vomita un fiotto di liquido scuro, vomita inchiostro, perché nelle sue vene non è mai circolato del sangue. Quest’immagine che si interpone tra noi e loro; questo fantasma è la nostra rovina.

Serra vede le donne morire da secoli nella letteratura e nell’arte, segue la sposa cadavere negli anfratti più nascosti dei romanzi, da quando questo genere si impone nell’Ottocento. Le vede morire eppure diventare più belle, non decomporsi. Ofelia o Beatrice sono le due spose cadavere più note ed eteree. Questa morte, quest’assassinio è il mattoncino che, se tolto, farebbe crollare l’intero edificio della gloria maschile. La morte ci fa belle sintetizza con agilità e lampi geniali la cultura (e l’umanità) del tardo Ottocento descrivendo come le belle morti femminili facessero furore, quanto l’estetica della morte femminile fosse seducente per scrittori e lettori; “la salma dell’eroina morta si mescolò agli oggetti quotidiani diventando una presenza familiare nelle case ottocentesche”. Eppure, si è trattato solo di uno stupido congegno narrativo, un elemento della composizione, una decorazione. “L’omicidio femminile è un mito fondativo della nostra cultura”. Non possiamo che essere d’accordo.

Fusini si muove su un terreno più neutrale, seguendo la tecnica consolidata dei gender studies. Cerca di riscattare le morti letterarie più famose, quella di Emma Bovary o di Anna Karenina, entrambe adultere, entrambe morte suicide. Per salvare anche gli autori, Tolstoj e Flaubert. L’adulterio che è al centro della vicenda narrata da Flaubert sarebbe sintomatico di quei cambiamenti in atto nella società di metà Ottocento; un attacco all’istituzione del matrimonio; Emma, come del resto pensano in molti, sarebbe una eroina protofeminista. Il romanzo di fatto fu censurato. Le donne sono finalmente viste per quello che erano: abusate sessualmente, economicamente e psicologicamente; il suicidio sarebbe solo l’estremo ed ultimo atto di appropriazione delle loro vite. Anna ed Emma trascinerebbero con sé una micronarrazione alternativa, di resistenza, aliena al patriarcato, e quindi necessariamente schizofrenica, e destinata al suicidio come unico gesto possibile per tirarsi fuori della norma patriarcale. “Con Anna si afferma un diverso modello di donna”, è sicura Fusini, è sicura che Anna Karenina, nonostante il finale, non si sia lasciata assoggettare né dal marito né dall’amante. Addirittura, il suo suicidio aprirebbe la strada al femminismo moderno. Un po’ esagerato, forse. Goliarda ed il suo alter ego Modesta scelgono sì la gioia, per citare un altro destino letterario. La micronarrazione si fa narrazione.

Sandra Petrignani invece non aveva dubbi su quanto Flaubert fosse stato impietoso con la sua Emma, impietoso ed antipatico. Serra prosegue su questa linea e va oltre. Siamo in pieno realismo; la storia è un fatto di cronaca di cui Flaubert era venuto a conoscenza perché capitata ad un allievo del padre che era un famoso chirurgo. Un fatto banale, triviale. La disfatta di Emma non viene dal consumismo e dai debiti, dalle passioni adultere, dalla noia del matrimonio con quel medico di campagna. Ma da molto prima da quell’abbuffata di libri, da quella carriera di “porno lettrice” a cui si era iniziata negli anni giovanili in convento. Emma è quella lettrice che si va formando nell’immaginario maschile dalla fine del Settecento, la lolita impressionabile, che divora libri mentre si masturba. Toccare la miseria della propria epoca, farla donna (e qui non è cambiato nulla) è stato necessario per affermare il desiderio del grande scrittore di immortalità letteraria.

Francesco Piccolo compie l’operazione più semplice: registrare la tracotanza maschile, dello specifico maschio italiano. Quella sua voglia continua (con tutti i suoi spauracchi, dall’impotenza all’omosessualità). Del resto, Francesca Serra lo scrive con molto amusement in Le brave ragazze non leggono romanzi: “L’uomo ha sempre voglia. Ecco l’unica grande certezza che non ci abbandona mai”. L’operazione di Piccolo è semplice perché la mascolinità trasuda da tutti i pori, sta lì sulla pagina, chiara e limpida, anzi vischiosa. Quella cosa così poco sublimata nel grande teatro della sublimazione che è la letteratura. Eppure, come scrive Barbara Mapelli per Letterate Magazine, Piccolo compirebbe un’azione “inedita”, questo scorrere la storia della letteratura, attraverso tredici grandi classici, analizzando come vengono presentati i protagonisti maschili sarebbe qualcosa che “non è mai stato fatto dagli uomini per gli uomini”. Perché in qualche modo non è sufficiente guardare per vedere e riconoscere tanta mascolinità e virilità. Per ricordare uno dei personaggi letterari che Piccolo evoca, il principe di Salina, il suo desiderio per la giovanissima Angelica sorregge tutto il romanzo ancora più straripante perché contenuto, ancora più vigoroso perché senile. Eppure, provare a decodificare e ridicolizzare quel desiderio pieno di prevaricazione non è un’operazione scontata. Lo stesso esercizio eseguito da un uomo è una specie di psicoanalisi, di confessione, e di possibile presa di coscienza. Ma in realtà avremmo bisogno piuttosto di una terapia di coppia, in cui il maschile e il femminile si mettano in dialogo, e finalmente l’io maschile faccia prova di quell’unico esercizio utile: essere “tu”.

Lo spirito con cui Piccolo attraversa i romanzi scelti è chiaro al finale. L’ultimo romanzo è Via Gemito di Domenico Starnone. Quel grande romanzo in cui Starnone non può fare altro che ricordare e continuare ad amare la madre – quella Rosinella, la cui bellezza è nascosta dentro casa, sotto gli abiti mesti della madre e della sarta, riservata solo al padre Federì- attraverso l’immagine deformante che il padre gli ha trasmesso. Cercando di forzare al limite quell’immagine, e quindi la figura del padre. Ma fino ad un certo punto, quello in cui si ritrova Piccolo: il punto in cui si rimane invischiati, il punto della complicità e della continuità. “E nonostante tenti disperatamente di raccontarne la distanza, lega il maschio di allora a quello di oggi”. Proprio il punto da cui si dovrebbe cominciare, da cui Piccolo avrebbe dovuto cominciare: rompere la complicità e la continuità, invece di affermarla, riconoscervisi dentro.

E allora quella frase di Carla Lonzi (unica autrice citata) lasciata lì verso la fine della prefazione “Noi neghiamo come un’assurdità il mito dell’uomo nuovo”, non è più una provocazione come nelle intenzioni di Lonzi ma una specie di adagio, nel senso di adagiarsi. Per Piccolo l’uomo nuovo è una chimera, non esiste, è più forte la legge della natura, quella delle “generazioni”, titolo dell’ultimo capitolo quello in cui ci racconta Via Gemito. “Anche io”. Queste due paroline alla fine della prefazione sono tutto il romanzo. Quella verità che le pagine vogliono nascondere, abbellire, a cui vogliono dare una certa dignità. L’uomo nuovo va cercato nella letteratura contemporanea, Starnone appartiene davvero ad un’altra generazione, anche io appartengo già ad un ‘altra generazione. E non necessariamente nei romanzi di pugno maschile perché il punto è che gli uomini non devono per forza leggere solo autori uomini (il maschile è descritto anche dai classici femminili). Forse l’uomo nuovo e il lettore nuovo vanno cercati decisamente altrove, che so tra le pagine di Sally Rooney.

Il romanzo di Piccolo allora è nostalgia allo stato puro, di quelle letture colte, giovanili, di quei romanzi di formazione, che in fondo si prestavano ad essere letti e interpretati in modi molteplici. Identificazione. La “defamiliarizzazione” che è la cifra della interpretazione è solo superficiale. Ho sempre detestato l’inettitudine di Zeno Cosini, per dirne una, ho decodificato presto certe posture del maschile e del femminile, anche noi donne ci siamo formate (per forza di cose) su quegli stessi romanzi (Leggere gli uomini di Sandra Petrignani) eppure oggi me ne sono emancipata completamente.  A proposito di Flaubert, Lydia Davis, che lo ha tradotto in modo assolutamente originale, ha confessato senza peli sulla lingua che Flaubert detestava ogni personaggio del libro.

Mi risulta difficile credere che Piccolo ne abbia subito l’influsso senza essere stato capace di liberarsene. Su questo punto ha ragione Fusini: “chi legge l’esperienza di Anna non può tornare indietro, non può più credere nell’oscurantismo patriarcale”. Eppure, dovrò convincermi che purtroppo esiste un lettore colto, progressista, anche intellettuale, con una libreria selezionata e vasta, che non sa leggere i romanzi, che li riceve e li ingoia senza saperli masticare.

L’uomo vecchio non può convivere con l’uomo nuovo.

Silvia Acierno