Ex-Libris-0-8-10

Anno 0 | Numero 8 | Maggio 1997

A Bologna la Fiera del Libro è una cosa che si svolge da anni, quindici giorni all’anno, sotto il Voltone del Podestà, proprio attaccato a Piazza Maggiore. Ora l’hanno spostata temporaneamente sul Pavaglione, ma non importa. Una cosa fatta di libri vecchi e nuovi, fondi di magazzino, libri usati, fumetti, ecc… Per me che all’epoca dei fatti facevo l’aspirante critico cinematografico voleva dire trovare la «Storia del cinema sovietico» di Lebedejev a cinquemila lire, alcune annate di «Screen World» curate da John Willis a diecimila, più tanti numeri sparsi di «Cinema» e di «Cinema nuovo» formato magnum. E poi un mucchio d’altra roba che col cinema c’entrava e non c’entrava. Come ad esempio quel libricino giallo della Vallecchi che aveva in copertina il profilo di Stanlio e Ollio. Costo: lire mille. Io naturalmente non sapevo neppure chi fosse Osvaldo Soriano. Avevo una sana, deferente dedizione nei confronti del grassone e del magrolino. Avevo pure un’insana, preoccupante attrazione nei confronti di Philip Marlowe (pochi anni prima era uscito Il lungo addio di Altman e tutti i miei amici avevano preso ad accendere i fiammiferi da cucina sull’unghia del pollice – io no, ma mica per ritegno, è che non ci sono mai riuscito). Insomma tutto questo bastava ampiamente per indurmi a comprare Triste, solitario y final.

Da quel giorno il libro di Soriano ebbe in casa mia una vita travagliatissima. Delle volte lo prestavo e non tornava più. Altre volte lo regalavo direttamente, così almeno non ci prendevamo in giro. Altre ancora spariva da solo per tornare fuo ri in circostanze inaspettate e inindagabili. E io continuavo a comprarlo finché ce n’erano copie. In fondo con mille lire facevi felice qualcuno. E quando dico “felice” non uso un termine fuori luogo.

La situazione si stabilizzò solo diversi anni più tardi grazie all’ingresso in casa mia dello stesso Triste, solitario y final, ma questa volta in edizione Bruguera – Libro Amigo, 250 ptas. (lo ammetto, ho pochissimi amici ispanohablanti). Non avevo mai immaginato che il mio vecchio Marlowe potesse arrivare a lamentarsi per aver ricevuto una “paliza”. O che il vecchio Stan, prima di saltare a terra dalla nave, potesse gridare «No van a matarme, papà». Ma l’effetto era sempre quello: da cercare di nascondere le lacrime.

Nel frattempo erano usciti Cuarteles de invierno (sublime carrellata finale del cantante di tango col corpo di Rocha fino al treno per Buenos Aires) e No habrá más penas ni olvido (grandi riprese aeree, tutto in esterno giorno, un giorno peronista). Nel frattempo Soriano era diventato Einaudi. Costava di più, ma almeno non dovevi ingaggiare un investigatore privato per trovare i suoi libri.

A quel punto la posizione di Soriano in casa mia s’era decisamente stabilizzata. Gli effetti collaterali, tuttavia, cominciarono a diventare un problema. Il primo di questi fu la ricerca di qualsiasi cd che portasse sulla copertina il nome di Gardel (provateci ancora oggi, “no es facil”). Pure l’uscita di Tangos di Solanas non apportò sostanziali miglioramenti. Io comunque facevo del mio meglio. Mi bastavano anche soltanto quindici giorni al Festival di Cannes per intonare accorato “Lejana tierra mia, bajo tu cielo, bajo tu cielo / quiero morirme un dia con tu consuelo, con tu consuelo”. Cercate di capirmi: ognuno ha gli esilii che si merita. Non vi dico poi l’effetto che faceva sulle ragazze la frase “El dia que me quieras / todo será armonia” perché non è di questo che stiamo parlando, qui.

Il secondo problema fu scoprire che gli argentini non scrivevano in spagnolo. La lettura di Borges in questo senso non era servita a nulla. Borges era uno che, piuttosto che usare termini come «vos», «sos», «che!», «macho», «hay que ser boludo» e «que se vayan al carajo!» si sarebbe fatto volentieri torturare. Soriano invece ebbe subito l’effetto di mandare all’aria quel poco di castigliano che avevo pensato di conoscere.

La terza scoperta fu che Soriano sembrava nato per essere portato al cinema. Di questa sono particolarmente fiero perché è un’intuizione che ho avuto io, agli inizi degli anni ’80, in compagnia di qualche milione di lettori e di un terzetto di registi. Tra il 1983 e il 1984 uscirono No habrá más penas ni olvido di Hector Olivera, Das Autograph di Peter Lilienthal e Cuarteles de invierno di Lautaro Murua. La cosa che non avevo previsto è che sarebbero stati tutti e tre piuttosto deludenti.

Il problema di Soriano al cinema è semplice. Se voi andate in Patagonia assieme ai figli del Capitano Grant e trovate uno che parla italiano, la cosa inevitabilmente vi colpisce. Ma se poi la stessa persona la ritrovate a Bologna, seduta al Roxy Bar, il fatto che questa parli italiano non vi fa stramazzare al suolo dalla sorpresa. Soriano è uno che scrive dialoghi che sembrano già pronti per il cinema, uno che taglia la sua narrazione come se stesse pensando a un film, ma se voi tutta questa roba qui la riportate pari pari in una sceneggiatura l’effetto è zero.

Al solito: la traduzione parola per parola non ha senso. Anche perché ci si ferma agli aspetti più esteriori e si perde quel che c’è di realmente cinematografico nella sua scrittura.

Faccio un esempio da Triste, solitario y final così ci capiamo. Marlowe è ubriaco ed è ridotto a uno straccio. Soriano è pronto a preparagli un caffè che finirà tutto e con violenza sulla porta del bagno. «Hubo un silencio. Los dos hombres se miraron largamente. De los ojos de Marlowe saltaron dos lagrimas trasparentes como gotas de agua, corrieron entre las arrugas de la cara y cayeron al suelo. El ruido fue terrible en la habitación vacia; la pistola habìa escapado de las manos del detective ».

Fatemi la grazia della traduzione, tanto si capisce. Questo è chiaramente un trucco letterario. Soriano cambia soggetto senza preavviso e si concede la civetteria di un punto e virgola prima di introdurre il vero soggetto della seconda frase. Per fare questo al cinema bisognerebbe fare un primo piano delle lacrime, sincronizzare la caduta col rumore fuori campo e poi far vedere la pistola in terra o addirittura raddoppiare il tempo e far vedere la pistola mentre ancora sta cadendo. Insomma uno schifo. Tutto troppo enfatico, troppo pesante per funzionare. Eppure questo tipo di trucco (cambio di soggetto, feticismo dell’inquadratura, ecc… ) è quello che ha fatto la fortuna del cinema e la felicità degli spettatori da almeno, non esagero, un centinaio di anni a questa parte. Al solito: Soriano così com’è e portarlo al cinema (con la scusa che sembra già tanto cinematografico) è un’operazione comunque difficile, ma probabilmente è anche l’unica sensata. Certo, chiedere questo a gente come Olivera o Murua, per non parlar di Lilienthal, forse è chiedere troppo. Però se non son capaci che non ci provino neppure. Non gliel’ha mica ordinato il medico di fare un film da Quartieri d’inverno.

Del resto anch’io se avessi dei miliardi da buttare non saprei a chi affidare la regia di un film tratto da un libro di Soriano. Solanas? Si prende troppo sul serio. Trueba? Non ha la testa. Almodóvar? Ni hablar! Kusturica? Non ha più la testa. L’unico sarebbe Billy Wilder, ma forse è troppo vecchio. E poi a me quale medico m’ha ordinato di pormi questo problema? Facciamo così: decidiamo che Soriano non è cinematografico, che i suoi libri sono del tutto inutili per lo schermo e lasciamolo in pace. Lasciamolo stare lì dove sta, che sta bene.

Gualtiero De Marinis

 

«La storia la fanno i potenti, Soriano. Noi siamo soli e il copione ci è contro», disse Marlowe. «Sì – disse Soriano – è un copione di merda».