Quando è ancora una sconosciuta, una giovane scrittrice dal nome Alba de Céspedes entra ufficialmente nel catalogo dell’editore Mondadori. È il 1937 e il suo primo romanzo, che sarà pubblicato l’anno successivo, è 🔗Nessuno torna indietro. Ha solo ventisei anni, alle spalle due raccolte di racconti e una di poesie. In una lettera datata 27 maggio 1939, Arnoldo Mondadori, riferendosi all’esordio della scrittrice, ben presto rivelatosi un grande successo di pubblico, ne parlerà definendola «un’opera vitale che rispondeva ai suoi gusti [del pubblico], alla sua sensibilità ed alle sue esigenze». Davanti a un risultato clamoroso – il libro andrà infatti esaurito nella prima settimana e subito mandato in ristampa – de Céspedes acquista di diritto un valore letterario ma anche di mercato, fatti (entrambi) che le inimicheranno, da adesso e praticamente per la durata della sua intera carriera, un certo establishment di critici e intellettuali. Tacciata di essere una «scrittrice facile» (in una lettera del 1966 lei stessa dirà «si è fatto di me il cliché dell’autrice che scrive facilmente, che vende, che difende le donne, che ha danaro a palate, che svolazza tra successi internazionali di qualità scadente, e personaggi di cartapesta»), de Céspedes non rispecchia neppure quanto viene richiesto alle donne dal regime: Nessuno torna indietro è considerato immorale, viene persino espropriato del premio Viareggio, vinto ex-equo con Cardarelli, per ordine di Mussolini. Le condizioni, insomma, non sono favorevoli.
«Qui noi non siamo nella realtà.»
«Siamo sul ponte, diceva Silvia…»
«Chiamalo come vuoi. Qui ancora ci cerchiamo: cerchiamo il nostro modo di essere.»
«Pensi che smetteremo di cercarlo, una volta fuori?»
«No, ma qui abbiamo l’illusione di non cercarlo sole.»
Tra l’autunno del 1934 e l’estate del 1936, otto ragazze provenienti da parti diverse della penisola, con vite e background differenti, si ritrovano assieme in un collegio romano femminile gestito dalle suore, l’istituto Grimaldi: qui soggiornano, studiano, chiacchierano tra loro, si incontrano di notte a luci spente, quando solo la fiammella di una candela può farle orientare tra i corridoi spogli della struttura. Hanno vent’anni, chi più, come la «matura» Augusta, chi meno. Non condividono molto, se non i comuni studi di Lettere; men che meno hanno le medesime prospettive di futuro, o ambizioni. Stanno, per l’appunto, solo percorrendo nello stesso momento quel ponte, a metà strada tra un prima e un dopo. Si chiamano Anna, Valentina, Augusta, Vinca, Xenia, Emanuela, Milly, Silvia. Chi di umili origini, come Valentina, chi lontano più d’altre da casa e da essa in fuga, come la spagnola Vinca, chi benestante, come Anna; o chi come la cagionevole Milly, che serba nel cuore un amore platonico per un organista cieco con il quale scambia lettere d’affetto; o, ancora, Augusta, le cui ambizioni letterarie si scontrano con i continui rifiuti da parte degli editori. Ci sono poi Emanuela, Xenia, Silvia: tre voci i cui destini peseranno notevolmente nell’economia del romanzo.
Sorprenderebbe, perlomeno se non si conoscesse affatto l’opera di de Céspedes, ritrovare qui un aspetto cardine nonché anticipatorio di una tendenza che avrebbe preso piede molto dopo, ovvero il molteplice punto di vista. L’intero romanzo è sostenuto dall’alternarsi continuo e costante della prospettiva: non si può prestare orecchio al segreto che custodisce Emanuela che siamo già al fianco di Silvia, mentre lavora per il professor Belluzzi per ritrovarsi, subito dopo, al fianco di Xenia lontano dal Grimaldi, in una Milano sconosciuta. In tale contesto, non meraviglia trovare (e apprezzare), in ogni pagina, una ricchezza e padronanza autoriale; non sembra, infatti, che la difficoltà di maneggiare otto diversi personaggi scalfisca l’impianto narrativo, che ne appare anzi potenziato. Ciascuna delle otto giovani ha dignità letteraria e si fa portavoce se non di un topos, sicuramente di un modello sociale e culturale. Non a caso, come già anticipato prima, il romanzo non incontrerà i favori del duce: qui le donne vivono di una libertà senza precedenti. Non tanto perché infrangono le regole, o perché adottano comportamenti non consoni, ma perché, dall’inizio alla fine, custodiscono il seme di un’indipendenza personale, perseguono ciascuna la propria idea di libertà, che può tradursi nella volontà di emanciparsi da un destino alla mercè degli uomini, rendendosi economicamente autonoma (è Augusta); nel desiderio di conseguire la laurea per tornare poi nel paese di campagna, nella casa d’infanzia, a fare la vita da sposata che sin da bambina si era immaginata (è Anna); nella decisione di riscrivere da zero il proprio futuro, cambiando città dopo aver fallito gli esami finali, liberandosi dalle catene dell’educazione femminile (è Xenia).
Pur forse meno definita biograficamente delle altre – di lei, infatti, non sappiamo neppure l’età, supponiamo solo che sia più adulta delle amiche, o quale sia il suo passato – Augusta è un personaggio fondamentale di Nessuno torna indietro, fosse solo perché le spettano alcune delle riflessioni più decisive sulla condizione femminile, che torneranno preponderanti nelle opere successive come Quaderno proibito.
«Il problema è uno» le aveva detto Augusta l’ultima sera: «la donna per liberarsi dalla tirannia dell’omo deve sostituirsi a lui, creandosi una vita autonoma, affrancata anche dalla servitù dei sensi: deve conseguire l’indipendenza dello spirito e della carne.» Parlava a bassa voce, interrompendosi ogni poco per bere: «Così nessuna donna temerà più l’avanzare degli anni. È terribile vedere, a poco a poco, avvizzire il proprio corpo, le forme un tempo snelle, divenire una massa sgraziata, la pelle afflosciarsi, perdere la lucentezza giovanile. Eppure, andando avanti, ci miglioriamo: si nasce femmine e si diviene donne, col tempo. Il tempo ci spaventa a causa degli uomini. Quando ognuna di noi avrà una propria vita indipendente, in ogni campo, saremo salve dalla paura: salve dalla vecchiaia, dalla morte, capisci? Sono loro i disturbatori dell’ordine che la donna stabilisce nel mondo».
Anche senza guardare a de Céspedes e restando nell’universo narrativo del romanzo, Augusta ha un’influenza nei confronti di chi le sta accanto, Emanuela soprattutto. La stessa Emanuela che ha già vissuto moltissimo nella sua giovane vita: ha conosciuto la fine di un amore a causa della morte, ha conosciuto lo stigma da nascondere per una gravidanza non benedetta dal matrimonio. Discorrere con Augusta la fa riandare ai giorni passati, alle menzogne che ha raccontato e che si è raccontata come ultima (e unica) forma di autotutela.
Il Grimaldi diventerà per tutte, negli anni che lo abiteranno, una zona franca, il non luogo per eccellenza dove sospendere il giudizio, dove riprendere le forze prima del grande slancio. Tanto più l’istituto respinge la vita urbana di Roma fuori dai suoi cancelli, tanto meglio ognuna di loro può godersi gli scampoli della giovinezza. Sono piccole, sì, ma da loro ci si aspetta già la decisione per il futuro: il matrimonio, ovviamente, ma anche la carriera, come per Silvia, tra le più diligenti studentesse, che pure vorrebbe barattare le sue doti per uno sguardo più affettuoso da parte di un uomo.
Chiedersi «fino a quando rimarrai qui dentro?» diventa un rito scaramantico, una liturgia profana per scacciare l’imminente. Il periodo trascorso al Grimaldi assumerà contorni sempre più sfumati nella memoria: uscite di lì, cosa è restato? forse un vago ricordo di amicizie ormai già dimenticate, il sentore di un momento irripetibile dell’esistenza.
Giovanna Nappi
E tu cosa ne pensi?